La Vittoria e Beppe Schiera. Meteo di lunedì 4 novembre.
Novantacinque anni fa come oggi una poco di poveri disgraziati con la divisa e un moschetto 91/38 nelle mani si guardavano nelle facce e capivano che finalmente potevano uscire dalle trincee dove avevano ammuccato fango, pititto e piombo austriaco per quasi quattro anni. Il poeta scarparo Schiera Giuseppe, in arte Peppe, era un palermitano di scoglio che di guerre ne stava affrontando un’altra bella tosta, la Seconda. Ma l’anima sua era ribbelle, non si accordava mai, non ci piaceva il Fascio come infatti lo arrestavano sempre preventivo quando doveva venire qualche fissa cu giummu. Lui non faceva male a nessuno. Forse. Ma le sue bombe erano palore che graffiavano la vernice. E sotto c’era la verità. Quanti giovani palermitani erano morti tra le pietre del Carso, o in quelle montagne così diverse da Mongerbino? Perché qua non c’è montagna da cui non si vede il mare. E la vernice che graffiò lo portò a sfottere una canzone che era come una santina del Cuore di Gesù per la Patria: 24 maggio che raccontava la controffensiva degli italiani e la cacciata degli austriaci finita poi con la vittoria del 4 novembre. Su quel motivo Schiera Giuseppe, scarparo, scrisse versi intinti nel vetriolo: “L’Esercito manciava scorci i favi e tinirumi, e quanno era ruminica quarumi… Ma viri quantu foru fissa i fanti? Avevano ri irisinni e ieru avanti….”.