Santa Marina Salina in linea Teodoro Cataffo

di Teodoro Cataffo

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Pubblicazione di “Casa al mare”-LE FAVOLE-IL FUOCO-1999
Dedicato a: Vittorio Pantò al quale ho rubato, lui consenziente, la primaria idea del Fuoco e a Mimmo Sineri al quale ho rubato, da un suo articolo su La Sicilia, l’idea del tesoro e di Arideno.

Una estate di tanti anni fa avevo a pranzo un solo ospite. Non era un avventore di passaggio ma un ospite assiduo, di tutti i giorni, uno che ogni volta che entrava sembrava cercare qualcosa. Veniva sulla sua motoretta equipaggiata nel modo più strano o arrivava dal mare su un piccolo gommone rattoppato. Vestiva un lungo pareo dai colori sgargianti. A volte scalzo, a volte con sandali francescani che lo preannunciavano con un cadenzato rumore di cuoio scotto al sole. Eccentrico,originale, osservava il mondo da dietro le spesse lenti e lo viveva in maniera del tutto personale.

Quel giorno, mi disse, era stanco e non aveva tanta fame. Voleva gustare però qualcosa di nuovo, di esclusivo, un non so che egli aveva in mente da tanto tempo. Qualunque cosa, ma che contenesse insieme tutti i tesori di questa isola, i sapori, i profumi, i gusti e che riuscisse a placare il tormento del suo gusto, il bisogno della sua anima, principalmente che riuscisse a dargli la serenità e la pienezza di cui, da tanto tempo, era in cerca. L’attesa di questo cibo essenziale cominciò. Il mio ospite con gli occhi rivolti al mare, nella direzione del sole che sorge, accarezzato dal venticello pomeridiano estivo che muoveva leggermente le buganvillee con un fruscio appena percettibile, tenendo in una mano il calice di freschissimo vino bianco, poggiò sull’altra mano il mento, socchiuse gli occhi e cominciò a narrare: questa è la storia del pirata saraceno Barbarossa Ariadeno e del suo immane desiderio di esaudire sempre nuovi stimoli, di fare sempre strane avventure, di provare sempre particolari gusti.

Egli era amante delle belle donne, specie se erano quelle degli altri. Gli piaceva tanto navigare, occupare terre lontane per far sue le ricchezze che trovava, ma in realtà si sentiva davvero felice quando poteva bere tanto e mangiare molto bene. Era un uomo grande e grosso con un largo petto villoso e spalle possenti, aveva gambe che sembravano tronchi e braccia nerborute. Gli zigomi, seppure in parte nascosti da una barba rossiccia, sembravano scolpiti nella roccia. Il collo taurino si riempiva di vene quando urlava ai vogatori e i lunghi capelli colore della cenere gli conferivano l’aspetto truce del potente guerriero.

I suoi occhi azzurro cielo che sembravano sempre cercare qualcosa tanto erano inquieti apparivano lucidi come fossero continuamente abbagliati dal sole, da un raggio, da un fuoco vivo. Forse era l’effetto del vino, o forse no. Le notizie delle sue imprese piratesche si diffusero ben presto per tutto il mar Tirreno ed era temuto e ricercato dalle capitanerie del tempo. Era chiamato Barbarossa non tanto per il colore della barba, ma più perché nel tempo libero trasportava dalla Liguria a Saracinia un vino prodotto da un vitigno chiamato barbarossa. Durante uno dei tanti viaggi un temporale lo aveva costretto a riparare su un’isola quasi deserta a poche miglia dalla costa occidentale della Trinacria.

Qui sentì un vecchio che cantava di sette isole in mezzo al mare chiamate Eolie, di bellissime donne con una carica erotica incredibile per l’uso smodato che le stesse facevano dei boccioli e dei frutti dell’orchidea eoliana. Cantava anche di un nettare divino coltivato dai contadini e di un grande tesoro ivi custodito. Ariadeno, attratto dalle belle donne, dal nettare e dalla storia del tesoro, partì all’alba del giorno che venne e seguendo le indicazioni del vecchio, presto giunse nel regno di Eolo. Era sera, le nuvole rosse si stagliavano su tutto l’orizzonte e stava scendendo da nord nord-est una grossa tempesta. Il mare si faceva incontro alla flotta di Ariadeno con una foga sempre maggiore.

Fu necessario ammainare le vele e mettersi ai remi. I tre battelli lottarono per parecchie ore prima di porsi al riparo sotto la costa della grande isola di Lipari. Di prima mattina Ariadeno sbarcò in quella parte dell’isola chiamata Pignataro, sorprese nel sonno le guardie del castello, occupò la guarnigione, imprigionò il re, mise a sacco e fuoco la cittadina, violentò le donne, bastonò gli uomini, rubò tutte le ricchezze, gli ori, gli argenti e quanto trovò che gli sembrasse importante. Giorni e giorni di tremendi saccheggi, di soprusi e umiliazioni si susseguirono per tutta l’isola e sembrava che Ariadeno ed i suoi uomini non fossero mai stanchi né sazi.

Ormai si erano istallati definitivamente in quell’isola e le angherie che la popolazione dovette sopportare erano tali che alcuni preferirono tentare la fuga per mare ed a volte trovarono la morte. Bisognava escogitare un piano per cercare di farli andare via. A ciò pensò un vecchio monaco bianco di nome Bernardo che viveva nelle grotte che il vento aveva scavato nella pomice. Egli si diresse al centro della città armato di una croce. Cercò di convincere Ariadeno che la vera felicità non sono le ricchezze di questo mondo. Vista la sua titubanza, lo informò che tutte le più grandi ricchezze, il tesoro di tutti gli eoliani era custodito non a Lipari bensì in un’isola vicina che si chiamava Salina. Continuò a narrare e spiegò tutto all’allibito ed incuriosito Ariadeno.

Forte delle istruzioni Ariadeno Barbarossa un bel pomeriggio d’agosto, radunati gli uomini, salpò con tutta la sua flotta da Lipari con grande soddisfazione dei liparoti. Gli ordini del monaco erano stati chiari, anzi categorici: “Salpato che avrai da sotto il castello, costeggerai il Monte Rosa, supererai il canneto, dove le acque sono verdi, e punterai dritto all’estremità dell’isola”. Ariadeno non essendoci nemmeno un alito di vento dopo aver tracannato pinte e pinte di barbarossa, sbloccati i centri inibitori della sua mente ed ordinato con voce impastata e spiritosa “Ai remi!” si sdraiò e si abbandonò al ritmico andare dei vogatori. Mentre la flotta scivolava sull’acqua piatta e azzurra e dorata dai riflessi del sole e mentre il silenzio era rotto solo dalla musica del mare che si apriva all’andare del battello, egli dormiva e sognava la sua terra lontana, la sua sposa, i suoi tanti figli.

Ma non solo. Sentiva nel sonno un’attrazione smodata per quanto gli aveva raccontato il monaco bianco e poi sentiva un formicolio di indiscutibile natura erotica causatogli dalle abbondanti libagioni e dalle favole che circondavano la sua mente ebbra con le storie delle bellezze eoliche, delle donne dalle bianche carni e dai volti scuriti dal sole e intagliati dal vento. Ed intanto la flottiglia aveva superato l’immenso canneto e le candide spiagge e si accingeva a doppiare la Punta Castagna. Era la parte finale a nord est dell’isola di Lipari; si poteva ammirare Salina in tutta la sua bellezza, seppur lontana. Dalla Punta Castagna si poteva guardare Salina nella sua angolazione più bella, con le sue montagne simili a prosperose mammelle.
Erano le sei del pomeriggio e aleggiava ancora un fresco venticello di maestrale, come usa d’estate, e superato il ridosso di Lipari il mare leggermente urlava e biancheggiava. Ariadeno, solleticato dalla brezza nei suoi peli pettorali e leggermente sbattuto dalla risacca, si svegliò. L’aria era chiara. Il cielo azzurro. Ed il sole, sceso fino quasi a toccare il mare, divenuto più rosso lo accecava un po’.

Sentiva un fuoco nel petto, o meglio non proprio nel petto ma un po’ sotto l’ernia iatale ed un po’ sopra lo stomaco, lì dove una volta si diceva ci fosse la bocca dell’anima. Ma quanto si presentò ai suoi occhi ancora un poco annebbiati era talmente nuovo, forse bello, certamente verde, fresco, invitante, sensuale che Ariadeno, dimenticato il bruciore allargò le possenti braccia, trasse un profondo sospiro, lo soffiò fuori e quasi gridando esclamò: “Didyme, quanto è bella”. Il monaco gli aveva detto che a Punta Castagna bisognava buttare l’ancora ed aspettare che dalla lontana Calabria sorgesse la luna piena. E mentre la luna salirà nel cielo, la sua luce argentata colpirà un punto preciso dell’isola di fronte, e lì apparirà un inequivocabile segnale, forse un bagliore o forse altro.

Era indicazione che lì e solo lì c’era il tesoro, il vero tesoro. La luna sorse alle nove ed era tanto piena e tanto rossa che Ariadeno rimase estasiato ad osservarla da sopra il pennone maestro della sua barca ammiraglia. La scia rossastra copriva tutta la piccola flotta e scivolava nel mare nero verso Salina. E mentre la luna si alzava il suo colore cambiava per diventare dorato e poi più chiaro. Il mare era tornato calmo.Tutti guardavano la sagoma delle due montagne timidamente schiarite dalla luna. Ogni tanto nell’immenso silenzio si udiva il rumore dell’acqua rotta dall’emergere e dalla rapida immersione dei corvi marini. Tutti guardavano adesso verso l’isola, proprio di fronte come aveva detto il monaco e tutti cercavano di vedere qualcosa.

All’improvviso la luce della luna invece di continuare ad espandersi salendo nel cielo, si restrinse e formò un raggio lucente ed impalpabile che inesorabilmente andò a colpire un punto preciso messo lì da chissà quanto tempo per essere colpito dal raggio di quella stessa luna. Da questo misterioso posto appena colpito dal raggio di luce, scoppiò un fuoco, un vero fuoco. Il tesoro era qui. Le grida concitate e nervose di Ariadeno ordinarono di issare le vele, di mettersi anche ai remi e a quant’altro potesse imprimere alle navi più velocità. La gioia di poter mettere le mani su quel fuoco che nascondeva il tesoro degli eolici aveva reso euforico il Barbarossa Ariadeno. E poi il pensiero di fanciulle da oltraggiare, di case da bruciare, di altri bottini da rubare e di cui disporre a suo piacimento, lo faceva sentire un leone. Tutto avrebbe fatto per fare suo e solo suo, quel fuoco.

Le barche correvano veloci nel salato mare liscio come l’olio. I loro remi si urtavano nervosi e disordinati quasi a mescolare l’acqua. I muscoli dei vogatori tesi allo spasimo, erano rossi come pomodorini d’agosto. Tutti erano occupati a far presto, più presto, più presto. Il condottiero pirata Ariadeno Barbarossa guardava quel fuoco e gli lacrimavano gli occhi dall’euforia, gli bruciava la bocca, gli saliva un rigurgito d’aglio e poi sentiva già un profumo ed un gusto per lui strani ma tanto piacevoli. Punta Castagna si allontanava mentre la sagoma di Salina, che si avvicinava, cambiavaaspetto ed anche nell’aria fino ad allora tersa stava inesorabilmente accadendo qualcosa. Un piccolo esercito di nuvole nere correva rapido verso la luna. Ariadeno capì e incitò ancora di più, se era possibile, i suoi uomini: voga, voga, voga. Erano quasi arrivati, mancava poco quando le nuvole nere coprirono la luna.
Ed il fuoco scomparve. Forse il terribile pirata saraceno, il temibile stupratore, l’impietoso saccheggiatore, forse è ancora oggi lì, ancorato a Punta Castagna che aspetta. Aspettache da Scilla e
Cariddi sorga un’altra luna piena che illumini di nuovo quel posto e faccia scoppiare un altro incendio. Può darsi che è ancora lì pronto a partire lesto per ritrovare negli occhi, nella bocca, sulla lingua, nell’anima forse, quei gusti e quei sapori che gli impastarono il grido: voga, voga, voga. “Signore, il suo pasto”. La voce del ragazzo che portava il piatto ci fece sobbalzare.

Eravamo lontani con la mente, tesi entrambi, io e il mio ospite, a remare o forse a gridare: voga, voga, voga. Assunsi in un attimo il mio atteggiamento professionale, anche se con lui non ce n’era bisogno, presi il piatto dalle mani del ragazzo e ponendoglielo di fronte gli dissi: “Ecco il tuo fuoco, Vittorio”.

Santa Marina Salina in linea Teodoro Cataffoultima modifica: 2011-11-30T18:58:00+01:00da leonedilipari
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