Società Partecipate&Corte dei Conti

asidotipiccola5.jpgdi Angelo Sidoti

Nelle mie ormai consuete ricerche di fine settimana sulle novità in materia di enti locali mi sono imbattuto in una deliberazione della Corte dei Conti sezione regionale di controllo per il Veneto n. 903/2012/INR nella quale si prendono in esame gli elementi che costituiscono la struttura essenziale del controllo da parte dell’Ente Socio sulle partecipate.

In particolare le indagini devono riguardare non solo costi e ricavi ma sopratutto la pertinenza dell’oggetto sociale alle finalità dell’amministrazione.
In poche parole bisogna accertarsi che le finalità iniziali che hanno indotto l’Ente a costituirsi in una forma partecipativa, non vengano stravolti o mutati successivamente.

Il nostro caso tipico e’ stata Sviluppo Eolie oggi in liquidazione che ad un certo punto della sua storia ha svolto attività di promozione e propaganda.

La Corte dei Conti in questione va oltre ed individua altre attività di controllo a carico dell’Ente, che per esempio potrebbero essere applicate nei confronti delle Ex Ato.

Parlo della verifica dell’adempimento degli obblighi indicati nella convenzione del servizio, del rispetto degli standard di qualità e di indirizzo oltre che il controllo sulla situazione economico finanziaria ed i relativi documenti di bilancio.

Insomma gli amministratori dei Comuni “devono esercitare” i propri poteri di Socio anche attraverso delle scelte drastiche (vedi azioni di responsabilità) in caso di gestioni che hanno determinato risultati negativi.

“Questo da noi non e’ stato fatto”. Abbiamo aspettato mesi e mesi ma che dico forse un anno, nel frattempo alcune società partecipate hanno maturato nell’esercizio 2012 ulteriori perdite che “non possono e non devono” ricadere sulle casse comunali e di conseguenza sui cittadini, bensì in virtù di quanto sopra espresso su chi le ha determinate.

Spero che il Consiglio Comunale vigili su questo argomento delicato. Noi comunque continueremo a farlo gratuitamente e con spirito di servizio.

Lipari, a Diana rinvenuti altri “tesori archeologici”

dianascavo.JPGLipari – Nell’ambito dell’attività di vigilanza della Soprintendenza ai beni culturali di Messina e del Museo Archeologico “Luigi Bernabò Brea” di Lipari,  è iniziato uno scavo archeologico in un’area urbana di  contrada Diana.

Il luogo dello scavo fa parte di una particella che rientra in un ‘area molto nota per i suoi tesori archeologici perché sede di una necropoli di eta’ greca e romana (dal VI a.C. e II d.C.) e di vari insediamenti preistorici (Neolitico ed Eta’del Bronzo). L’area oggetto dello scavo  (di proprietà privata) ha già restituito importantissime testimonianze del periodo indicato. Le tombe rinvenute sino ad oggi sono del tipo a sarcofago di pietra e a “cappuccina” , cioè realizzate con grandi tegole disposte a capanna. Insieme a queste ultime sono state rinvenute  urne cinerarie di età greca (IV sec. a.C.), consistenti in crateri a figure rosse, fra cui uno di particolare interesse perché si distingue per la sua iconografia e pregio della manifattura che si può ricondurre ad una produzione dell’Italia meridionale. Sul lato del cratere si osserva la nascita di Afrodite resa con sovra dipinture bianche e dorate.Il corredo -invece-  era contenuto entro una pentola e consiste in maschere teatrali e vasetti a vernice nera.

Per la preistoria si conserva eccezionalmente una parte del villaggio a capanne che si estendeva nella pianura di c.da Diana durante la prima fase della cultura di Capo Graziano risalente a 4000 anni fa. In particolare si è individuato uno spazio dedicato alla conservazione degli alimenti con grandi vasi, insieme a vasetti miniaturistici tutti modellati a mano. I lavori sono seguiti da Maria Clara Martinelli e Umberto Spigo per il Parco archeologico delle Isole Eolie, da Nunzia Ollà e Gabriella Tigano per la Soprintendenza di Messina con la collaborazione di Lillo Giordano per le ricerche.

LA NOSTRA STORIA. Lipari&alluvione. L’ultima risale al 9 giugno 1853 come dal manoscritto Mancuso

alluvionevecchias.JPGLipari – L’ultima violenta alluvione nella “capitale” delle Eolie risale al 9 giugno BCANNISTRA1.JPGdel 1853 come sancito nel manoscritto Mancuso di cui siamo in possesso grazie alla gentile concessione del professore Bartolino Cannistrà, storico eoliano.

alluvionevecchia22.JPGRiportiamo testualmente: “Qui 9 giugno accadde in Lipari una grande alluvione. Il fiume della Valle sormontando il muro alluvionevecchia11.JPGerettovi per impedire il passaggio nel villaggio dell’isola detta “La Sena”, con grave danno di fabbriche nella Marina di San Nicolò”. 

Lipari, un pò della nostra storia

La Distruzione della Città di Lipari ad opera di
Ariadeno Barbarossa

Nel 1519 Carlo V ingrandiva il suo dominio ottenendo la corona imperiale di Germania contesagli da Francesco I, re di Francia. Fra questi due regnanti a più riprese furono combattute aspre battaglie che trasformarono l’Europa intera in un teatro di lotte. Dopo più di venti anni di lotte, Francesco I, per disfarsi dell’avversario e soddisfare la sua feroce passione di vendetta e di ambizione, stimandosi inferiore di forza, dimentico di essere cristiano, strinse alleanza con Solimano il Grande, re dei Turchi, il quale ben comprese che era il momento propizio di approfittare della discordia dei due re cristiani per espandere, mercé l’opera dei pirati che avevano le loro sedi lungo le coste dell’Africa, la sua potenza e trarre dall’azione di essi lauto bottino.

Una flotta di 150 triremi, alla quale fu posto a capo Ariadeno (Khair ad-dín), re dei pirati, conosciuto volgarmente sotto il nome di Barbarossa per la sua barba folta e rossiccia, e che già aveva a Tunisi lasciato triste ricordo della sua persona durante il tempo che ne era stato il dominatore, fu pertanto spedita nel 1543 da Solimano in aiuto del re dei Francesi. Dopo avere costeggiato l’Italia, arrecando considerevoli danni in alcune località marittime giunse in Francia, dove per circa un anno si trattenne nei pressi di Marsiglia; dopo di che il re Francesco I, ravvedutosi della scandalosa lega con quegli infedeli, che gli aveva fruttato soltanto immense spese e l’odio dei popoli cristiani, rimandò

Barbarossa in Oriente, consegnandogli molti doni. Spinto dalla sua indole, il re dei pirati pensò di compiere, anche durante il viaggio di ritorno, azioni di forza onde trarre da esse il maggiore bottino possibile. Le intenzioni del corsaro furono note prima ancora che egli intraprendesse il ritorno e molto si temette per la città di Lipari, sita sul percorso che l’armata navale turca doveva fare per tornarsene in patria. Il viceré di Napoli, don Pietro di Toledo, alla fine del mese di maggio 1544, inviò a tal proposito ai Liparesi un naviglio per avvertirli della minaccia che gravava sulla loro città. Posti sull’avviso, i Liparesi, per nulla sbigottiti dalla forza del nemico, si diedero con animo e fervore a preparare la difesa della loro città.

Da Messina provvidero a ritirare, con denaro raccolto fra loro stessi, copiose armi e munizioni. Era antica consuetudine che in caso di pericolo le città vicine si aiutassero fra loro con l’inviare soccorsi di uomini ben armati, provvedendoli di viveri di tre giorni in tre giorni, e col dare inoltre temporaneamente qualche pezzo di artiglieria, per cui anche la città di Patti, come si rileva da un documento del secolo XVI che si conserva nell’Archivio Municipale di quella città, prestò in quell’occasione artiglieria a Lipari.

Fu vagliata dai Liparesi la opportunità di inviare in Sicilia tutte le donne, i bimbi e gli inadatti alle armi per toglierli dal pericolo e nel contempo alleggerire il peso del vettovagliamento necessario per affrontare un lungo assedio; prevalse però l’opinione di coloro che stimavano che nessuno dovesse allontanarsi dall’isola in modo che gli uomini di Lipari, avendo l’impegno di difendere con il suolo della patria, anche la propria famiglia, avrebbero così combattuto con maggiore accanimento e con maggior fede.

Anche la tesi avanzata da alcuni di fare venire da Messina una forte guarnigione di soldati spagnoli per accrescere il numero dei difensori, non ebbe felice esito, fidando che le sole forze dell’isola sarebbero state sufficienti alla difesa della città. Né migliore fortuna ebbe la richiesta fatta al Viceré di Napoli di avere una guarnigione in aiuto; Pietro di Toledo infatti richiese agli abitanti di Lipari di sopportare le spese dell’invio della guarnigione; condizione che non fu dai Liparesi accettata, importando essa un’ingente spesa e non

essendo quei cittadini in grado di sostenerla.
Lipari si apprestò cosi a subire l’assalto dell’imponente forza di Ariadeno Barbarossa.  Giunse nel frattempo da Napoli una fregata inviata ai Liparesi dal viceré Pietro Toledo, carica di munizioni da guerra, la quale recò pure l’avviso che non sarebbe passato molto tempo dal sopraggiungere di Barbarossa. Costui infatti, partito da Tolone per Costantinopoli, si diede prima a saccheggiare

la riviera di Napoli ed indi espugnò l’isola di Ischia. Non contento di queste devastazioni, egli mosse quindi contro Lipari per espugnarla; ciò alla fine del giugno 1544. Il Maurolico, storico di quel tempo, scrive che la flotta turca al 30 giugno era arrivata fino a Policastro e che l’indomani, dalle più alte cime del Peloro, fu vista avvicinarsi alle isole Eolie e che il numero delle navi ascendeva a 144. I Liparesi, che conoscevano per fama la crudeltà del Barbarossa, appena seppero dell’avvicinarsi del terribile pirata, confidando nel sito della città, forte per natura, si ritirarono tutti, per come era stato prestabilito, entro il Castéllo, fiduciosi di potere sostenere un lungo assedio.

Questo Castello, entro il quale era costruita la città propriamente detta, sorge sopra una rupe scoscesa bagnata da più parti dal mare, il che rendeva difficile espugnarlo, ed esso era inoltre fornito di un’ottima fortezza. Su questa rupe era possibile accedere semplicemente da una strada, che poteva essere guardata da poche persone ed il cui ingresso era recinto da muraglie e da bastioni. Ai piedi di questa rupe si trovava un borgo abitato che, al primo sentore dell’avvicinarsi del famoso corsaro, fu abbandonato dagli abitanti i quali corsero a rinchiudersi entro il Castello.

Barbarossa, giunto a Lipari, entrato risolutamente nel porto e posto l’assedio al Castello, senza porre tempo in mezzo, inviò una ambasceria per chiedere la resa della città. Essendosi però gli abitanti mostrati risoluti a combattere anziché ad arrendersi, Barbarossa provvide a fare sbarcare i suoi uomini sulla spiaggia dell’insenatura detta Portinenti. Gia un forte nucleo aveva posto piede a terra e vari cannoni erano stati sbarcati, quando l’artiglieria liparese cominciò il suo fuoco, arrecando ai nemici gravi

danni, per cui le navi degli assalitori furono costrette ad allontanarsi dalla detta spiaggia ed a porsi al riparo dietro la punta denominata Capistello. Con bene aggiustati colpi, i Liparesi riuscirono, prima ancora che le navi di Barbarossa potessero mettersi al sicuro, ad affondare due galee nemiche. L’audacia dei Liparesi non disarmò gli assalitori, i quali attesero il favore della notte per potere ritentare l’impresa ed indisturbati procedere allo sbarco di altre truppe e di altri cannoni, che furono collocati presso la vecchia chiesa di S. Bartolomeo, alla quale era congiunto il convento dei francescani.

In questa località, che restava alquanto rialzata nei confronti del vicino terreno, fu, oltre l’artiglieria, sistemato pure l’accampamento per le truppe sbarcate. Solo le luci del giorno resero edotti i Liparesi di quanto nella notte era stato operato dai nemici. Un duello feroce, incessante, ebbe cosi inizio fra le artiglierie dei due contendenti. Giorno e notte, senza tregua alcuna, la città di Lipari venne battuta dai cannoni di Barbarossa che, con colpi bene aggiustati, mandavano in rovina le muraglie del Castello, arrecando fra le file dei difensori gravi perdite.

Solo per poco gli assediati poterono controbattere i nemici con efficaci colpi, perché al terzo giorno la loro artiglieria fu resa inservibile, ma non per questo l’animo dei Liparesi venne meno. Mentre essi si difendevano coraggiosamente, il corsaro spedì trenta galee a Patti per provvedersi di acqua; impediti nel potersela procacciare, per i continui assalti dati dalla cavalleria siciliana, i Turchi saccheggiarono per vendetta la città di Patti, asportando un ricco bottino e bruciando circa centocinquanta case.

I Liparesi, considerato che ogni resistenza sarebbe stata vana, inviarono al Barbarossa quattro ambasciatori per chiedere le condizioni di resa e supplicarlo di risparmiare la loro città da una sicura distruzione. Ingente fu la taglia richiesta dal Barbarossa, domandando egli ben centomila scudi per allontanarsi. Tornati gli ambasciatori entro le mura della loro città, e riferita ai concittadini la risposta data dal Barbarossa, furono ampiamente discusse le condizioni di resa; ma non essendo i Liparesi nella possibilità di far fronte ad un pagamento così ingente, fu sollecitato l’assalitore di volere ricevere piú mite somma.

La proposta esacerbò il re dei pirati che, senza indugio, diede ordine che fosse ripreso il bombardamento della città. Le macchine furono accostate alle mura del Castello e nessun mezzo fu tralasciato per arrecare fra i difensori danni e vittime, reputando Barbarossa cosa disonorevole partire senza avere espugnato la città di Lipari.

II 4 luglio, mentre a Lipari fortemente si combatteva, avvenne un’eclisse totale di luna, che diede luogo alle più strane fantasticherie. I Turchi intanto, resi ancor più feroci dall’eroica resistenza dei Liparesi, provvidero a raddoppiare gli sforzi e gli assalti; resistevano gli assediati, convinti che se i nemici fossero penetrati entro il Castello, tutti sarebbero stati massacrati senza differenza di persona, di età e di sesso. Percosso dai colpi nemici, cadde nel frattempo parte di un muro principale del Castello, ferendo nella sua rovina molti difensori.

Superbi nella difesa, sprezzanti della vita, per nulla scoraggiati, resistevano gli assediati, avendo cura di riparare alla meglio, con pietre, terra e legname, ogni falla prodotta dai proiettili nemici. Per più intimorire gli assediati, Barbarossa, sicuro di non potere ricevere alcuna molestia da parte dell’artiglieria liparese, fece allora avanzare le galee che erano rimaste al sicuro dietro la punta del Capistello, e fattele entrare nell’insenatura di Portinenti, fece sbarcare da esse altre truppe ed altri pezzi di artiglieria. I nuovi preparativi spinsero i Liparesi ad inviare l’8 luglio, nel campo di Barbarossa, una nuova ambasceria, composta di tre fra i più eminenti cittadini del luogo, onde scongiurare il nemico di sospendere l’assalto ed avanzare richieste adeguate alle condizioni economiche degli assediati. L’ambasceria ebbe esito negativo ed il bombardamento della città di Lipari continuò con più violenza e più accanimento, per cui il Comandante la fortezza di Lipari ed i giurati della stessa città pensarono di rivolgersi a certo lacopo Camagna, uomo stimato da tutti, di molta autorità e pratica negli affari, per chiedere il suo intervento presso Barbarossa.

Il Camagna, vedendo che la patria era ridotta a mal partito e che non vi era alcuna speranza di soccorso, circondata per come era dal nemico per terra e per mare, osservando che i suoi concittadini erano profondamente abbattuti d’animo, mentre i nemici erano diventati più arditi, pur trovandosi in precarie condizioni, data la gravezza degli anni e la sua malferma salute, accettò l’incarico di trattare con il nemico.

Giunto al cospetto di Barbarossa, il Camagna, con parola facile e piena di blandizie, si sforzò di ottenere clemenza per i suoi concittadini, dichiarando che essi erano pronti ad aprire le porte del loro Castello purché fosse assicurata l’immunità a quanti dentro vi si trovavano. La proposta non fu accettata dal nemico, il quale promise invece di lasciare libere da ogni tributo soltanto ventisei famiglie. Tale notizia fu dal Camagna recata ai suoi concittadini, i quali furono dallo stesso con una forte orazione esortati ad arrendersi.

Gli assediati decisero di inviare un nuovo ambasciatore da Barbarossa nella persona di Bartolo Comito, con l’incarico di offrire, come condizione di resa, che ogni uomo potesse essere libero mediante il pagamento di venti scudi. Sembra che la proposta sia stata accettata dal Barbarossa, per cui i Liparesi, convinti dalle promesse fatte al Camagna ed al Comito, stanchi del lungo assedio e

mancando loro le vettovaglie e le munizioni, decisero di arrendersi.
La mattina del venerdì 11 luglio, dopo ben dieci giorni di aspra lotta, tutto il popolo liparese, con in testa il Capitano d’armi ed i giurati della città, si recò al campo di Barbarossa per fare atto di omaggio e consegnare le chiavi della città. I re dei pirati, accettando la sottomissione, rimandò tutti entro il Castello, dando ordine ad uno dei suoi ufficiali di compilare l’elenco delle ventisei famiglie più cospicue che, giusto i patti, dovevano essere lasciate libere da qualunque molestia e dal pagamento di qualunque tributo.

Nel pomeriggio dello stesso giorno Barbarossa, seguito dai suoi ufficiali e da un trionfante stuolo di giannizzeri, si recò dentro le mura della città di Lipari e diede ordine che fosse trasportata nella casa del Camagna tutta la mobilia delle ventisei famiglie libere, onde cosi preservarla dal saccheggio che i suoi soldati avrebbero compiuto nella città occupata. Provveduto a ciò, egli concesse ai Turchi il saccheggio della città.

Turbe feroci si precipitarono dovunque, commettendo ogni sorta di nefandezze, di ruberie e di atti inumani. Tutte le case furono spogliate, e molte di esse furono dalla ferocia dei devastatori ridotte a mucchi di pietre. Per accelerare l’opera vandalica di distruzione, fu in molte parti della città dato il fuoco. Nulla riuscì a frenare la furia devastatrice degli assalitori, non le chiese, non le immagini sacre, che furono calpestate, imbrattate di fango e trascinate per terra. La chiesa di S. Bartolomeo, vicino al porto, ed il nobile monastero dei religiosi di San Francesco dell’Osservanza ad essa attaccato, furono devastati e dati alle fiamme. Anche alla Cattedrale, eretta dalla munificenza del normanno conte Ruggiero, fu appiccato il fuoco, dopo di essere stata saccheggiata dagli infedeli.

Il grande soffitto e gli splendidi lavori in pittura ed in legname che rendevano quel tempio pregevole anche dal lato artistico, rimasero cosi inceneriti. Fu in quell’occasione distrutto pure l’Archivio Municipale in cui erano conservate tante pubbliche scritture sia della Chiesa che della città di Lipari.

Compiuta l’opera di devastazione della città, contrariamente ai patti stabiliti, la mattina del sabato 12 luglio, il Barbarossa fece trasportare sulle navi tutta quanta la mobilia che era stata raccolta nella casa del Camagna e di proprietà delle ventisei famiglie che dovevano essere lasciate libere, e quindi fece dare fuoco alla stessa casa del Camagna. Ma non solo per questo atto il Barbarossa si rese spergiuro; contrariamente alle condizioni di resa, dopo avere fatto caricare sulle navi il bottino, fece prendere e condurre sulle stesse galee gli abitanti di Lipari senza esentarne neppure uno dalla schiavitù.

Dopo avere cosi saccheggiata ed incendiata quasi tutta la città ed avere ridotto nella più squallida desolazione l’isola, il corsaro si parti da Lipari portando seco un ingente bottino, iniquo trofeo di guerra, e più di ottomila prigionieri di ogni sesso ed età, lasciando la città completamente spopolata. Il 14 luglio i corsari saccheggiarono Milazzo e si avvicinarono a Reggio, e precisamente a Catona, ove molti dei Cristiani che erano stati fatti prigionieri nelle varie incursioni di Barbarossa furono, specie ad opera dei Messinesi, riscattati, e fra questi molti Liparesi. Grave era la condizione dei prigionieri, i quali, non convenientemente nutriti, venivano lasciati morire di fame, di stenti e poscia gettati come inutile e funesto ingombro nel mare. Dopo essersi fermato alcuni giorni lungo la costa calabra, Barbarossa riprese il suo viaggio, portando in Oriente migliaia di schiavi cristiani ed un ricco bottino.

Tra coloro che furono riscattati fu anche il Camagna, contro il quale molte furono le voci che si levarono, accusandolo di essere stato traditore della patria, per cui, subito dopo liberato, venne dal Governatore di Messina trattenuto sotto si grave imputazione. Il Camagna riuscì però ben presto a giustificare la sua condotta e provare la sua innocenza per cui, dopo alcuni mesi, poté fare ritorno nella sua città di Lipari. I Liparesi che ottennero il riscatto, tornarono in patria e con quelli che si erano salvati con la fuga nelle vicine campagne, presero a ripopolare la città duramente provata.

Tratto dal sito del Comune di Lipari

Peppino Impastato – Trent’anni fa l’omicidio del giovane di Cinisi commissionato dal boss Badalamenti

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poesiedi.JPGPOESIE DI PEPPINO

Un mare di gente
a flutti disordinati
s’è riversato nelle piazze,
nelle strade e nei sobborghi.
E’ tutto un gran vociare
che gela il sangue,
come uno scricchiolo di ossa rotte.
Non si può volere e pensare
nel frastuono assordante;
nell’odore di calca
c’è aria di festa

http://www.peppinoimpastato.com/

Lipari, i nuovi “tesori archeologici” di piazza Mazzini

convegnoparco2.JPGdi Umberto Spigo e Maria Clara Martinelli*

I lavori di riqualificazione di Piazza Mazzini avviati nel mese di novembre 2011, sono stati preceduti dall’esecuzione di numerosi saggi in profondità nel sottosuolo per verificare la presenza di antiche strutture di interesse archeologico. Le indagini preliminari sono state disposte dalla Soprintendenza di Messina e condotte con la collaborazione del Parco Archeologico delle Isole Eolie, Milazzo, Patti. 

In uno di questi saggi, immediatamente al di sotto del piano pavimentale della piazza, sono state scoperte alcune strutture di età preistorica e di età ellenistica – romana.
La più antica, un recinto composto da grandi pietre che risale all’età del Bronzo Antico (cultura di Capo Graziano) documenta la presenza di un insediamento di capanne anche sul pendio che dalla Civita scende sulla attuale via Garibaldi.

A ridosso del recinto preistorico, è stato inoltre scoperto un pavimento in pessime condizioni di conservazione, attribuibile ad un edificio di età tardo romana.
La struttura maggiore, quella più evidente, è composta da due filari paralleli di grandi blocchi lapidei (latitandesite proveniente dal Monte Rosa). L’integrità di tale struttura è stata danneggiata dal posizionamento nel passato recente, di varie tubature e tombini. Non è stato ancora possibile datare questo ultimo ritrovamento ma è facile che possa far parte del nuovo impianto di strade organizzato nel corso del I-II sec. a.C. Infine, subito ad di sotto del massetto della strada attuale, è stata intercettata la fondazione di un piccolo ambiente intonacato, probabilmente risalente al XVIII sec.

Volendo sintetizzare una piccola parte della storia eoliana per capire queste nuove scoperte  bisogna partire dalla cultura di Capo Graziano che si diffonde nell’età del Bronzo Antico (dal 2100 a.C. al 1600 a.C.)  e che prende il nome dalla Montagnola di Filicudi, dove si sviluppano due importanti villaggi. Il più antico si estendeva sulla piana di Filo Braccio, ma poi in seguito si spostò sulla soprastante Montagnola di Capo Graziano per l’insorgere di minacce di incursioni nemiche provenienti dal mare. Anche nell’isola di Lipari assistiamo ad un primo insediamento nella piana di Contrada Diana e successivamente al suo spostamento sulla difesa e arroccata acropoli. Il nuovo ritrovamento conferma che un gruppo di capanne doveva essere anche sul pendio naturale dell’acropoli che scivolava verso la pianura.

I saggi archeologici eseguiti nel 1966 attestarono che durante l’età greca e poi ellenistica romana, la Civita (oggi piazza Mazzini) doveva essere parte importante della topografia di Lipari. La piazza fu risistemata nel corso del II sec. a.C. quando fu stabilito un nuovo impianto urbanistico con strade rettilinee e assi minori perpendicolari, come testimoniano i ritrovamenti sull’acropoli. In età romana imperiale si datano imponenti interventi di ristrutturazione che comportarono il livellamento della piazza e la costruzione di un edificio monumentale di cui rimangono alcune parti, ancora conservate nel sottosuolo. Le principali testimonianze interessano la zona antistante il municipio mentre il resto della piazza era occupato dalla roccia che degradava verso il mare. La sistemazione attuale è quindi frutto di interventi di livellamento probabilmente già iniziati durante l’età romana. 

I saggi eseguiti oggi risultano di notevole interesse perché danno ulteriori informazioni sulla topografia della città in epoca ellenistica e romana, ai tempi cioè del nuovo impianto urbanistico della città. La scoperta del recinto in pietra di età preistorica permetterà con il proseguimento delle indagini archeologiche di conoscere ancora meglio l’avvicendarsi dei grandi villaggi dell’età del Bronzo di Lipari, Filicudi, Salina, Stromboli e Panarea, abitati da popolazioni che hanno lasciato il segno nella storia più antica del mediterraneo.

*Direttore e funzionario archeologo del Parco Archeologico delle Isole Eolie, Milazzo, Patti e comuni limitrofi

Lipari, a piazza Mazzini rinvenuta capanna del XV secolo

Lipari – Proseguono i lavori nella piazza Mazzini ad opera della ditta di Bella di Catania sotto la stretta sorveglianza del tecnico Bartolo Bonino e come era prevedibile sono anche “spuntati” dei reperti archeologici. In prossimità della salita che conduce al castello è stata rinvenuta una capanna che dovrebbe risalire alla fine del XV, e degli inizi del XIV sec. a.c. La capanna – per quel è trapelato dovrebbe avere le stesse origini dei reperti di Capo Graziano a Filicudi. 1607617084.JPG

Capo Graziano a Filicudi Come le altre isole vicine, Filicudi deve avere ricevuto nuclei di popolazioni stabili fin dal neolitico superiore, intorno a 3.000 a.C. Lo dimostrano frammenti ceramici dello stile di Diana trovati nella Montagnola del Capo Graziano e Lungo la sponda meridionale della baia del Porto. All’inizio dell’età del Bronzo, forse ancora prima della fine del III millennio, sorse nell’isola un grande insediamento, senza dubbio di genti nuove, venute da lontano, che vi si stabilirono e nelle quali abbiamo creduto di poter riconoscere gli Eoli delle leggende, dei quali le isole portano ancora il nome. E’ questo uno dei più vasti insediamenti preistorici delle isole Eolie (Piana del Porto – casa Lopes). Dopo alcuni secoli, agli inizi cioè del II millennio a.C., l’abitato si trasferì dalla riva del mare, indifendibile, alla sommità della sovrastante Montagnola del Capo Graziano. Una cupola rocciosa a pareti scoscese quasi ovunque inaccessibili, che costituiva una vera fortezza naturale, in una posizione cioè molto più disagevole, ma molto più adatta alla difesa.

E’ evidente che lo spostamento fu imposto dal cambiamento della situazione politica nel basso Tirreno e dall’insorgere di gravi preoccupazioni di difesa per le popolazioni costiere. Gli scavi svoltisi fra il 1956 e il 1969 si sono peraltro concentrati su un’ampia terrazza del fianco Ovest della montagnola, intorno alla quota 100. E’ stata messa in luce qui poco meno di una trentina di capanne, molto serrate fra loro, in rapporto ad una popolazione numerosa e alla ristrettezza dello spazio disponibile sono capanne ovali, alcune delle quali con struttura “a spina di pesce” secondo una tradizione elladica che sembra risalire anch’essa, come il tipo stesso della capanne e come le forme delle ceramiche, al Protoelladico III della Grecia.

Altri frammenti di ceramiche dipinte protomicenee di stile I e II ci offrono un elemento di datazione molto preciso e ci permettono di riconoscere che la facies culturale di Capo Graziano ha continuato ad evolvere fino al passaggio dallo stile miceneo II al III e ciò fino all’incirca al 1430 a.C. Ai livelli della cultura di Capo Graziano si sovrappongono, coma ovunque nelle isole Eolie, quelli della cultura del Milazzese, caratterizzati da un complesso ceramico del tutto diverso, di origine di attinenza siciliana.La collina di Filicudi Nelle capanne di questa nuova fase si trovano ancora numerosi frammenti di ceramiche Egee importate, ora di stile Miceneo III A1 e cioè della fine del XV, e degli inizi del XIV sec. a.C. Dopo la distruzione di quest’ultimo villaggio da porre in rapporto con la conquista ausonia delle isole, l’intera isola di Filicudi sembra rimanere deserta per molti secoli. Filicudi è stata di nuovo abitata in età greca (pochi frammenti ceramici del VI – V sec. a.C. del Capo Graziano; vasetti di corredi tombali del IV nel Piano dal Porto, cippo funerario iscritto in pietra liparese da Zucco grande). Di età romana sono i resti di abitazioni ancora riconoscibili nelle piane al di sopra della spiaggia sul lato settentrionale del Piano del Porto. Di età cristiano-bizantino è un gruppo di tombe intagliate nella roccia, prive di corredo, venute in luce sulla dorsale del Piano del Porto nei saggi esplorativi dal 1952

Judo, per la neve rinviato il campionato italiano

di Domenico Falcone

frussopiccola.jpgConsiderato il perdurare delle avverse condizioni meteo, la Federazione ritiene opportuno posticipare la data di svolgimento del Campionato Italiano Cadetti di Judo, previsto l’11 e 12 febbraio, al 2 e 3 giugno 2012. La sede di svolgimento rimane fissata al PalaFIJLKAM di Ostia.
Per venire incontro alle esigenze degli atleti connesse alla categoria di peso, sarà resa possibile la partecipazione alla categoria superiore rispetto a quella nella quale è stata svolta la qualificazione regionale.

*Segretario Generale

Nb al campionato nazionale parteciperà l’eoliana Francesca Russo, dello Sporting club di Lipari.

Amarcord. Filicudi, 26 maggio 1971, ore 11: i presunti mafiosi sbarcarono nell’isola delle Eolie

filicudimafiosi.jpgFilicudi – 26 maggio 1971, ore 11: i presunti mafiosi sbarcarono nell’isola delle Eolie. Con alcuni provvedimenti dell’autorità giudiziaria di Trapani e di Agrigento (sezione prevenzione) si decise di inviare, a soggiorno obbligato, quindici boss della mafia siciliana nell’isola di Filicudi . Fra questi vi era, anche Gaetano Badalamenti di Carini(Palermo)che, all’epoca aveva 47 anni. Inteso con il nomignolo “Battaglia”(dal cognome di sua madre) era considerato un mafioso appartenente alla cosca dei fratelli Greco di Ciaculli, avversari di Angelo La Barbera.Incluso nel rapporto dei “54”, venne assolto per insufficienza di prove dall’accusa di associazione a delinquere dalla Corte D’Assise di Catanzaro.Secondo i rapporti della polizia e della magistratura la sua principale attività era il traffico di stupefacenti.

Gli abitanti di tutte le sette isole Eolie rimasero sorpresi e perplessi per l’incredibile ed inverosimile decisione di portare i mafiosi a Filicudi e manifestarono il loro dissenso e disappunto in modo deciso e determinato. I “sorvegliati speciali” giunsero da Messina a bordo di un aliscafo della Società S.A.S. e sbarcarono sull’isola (a Filicudi Porto) alle ore 11 del 26 maggio 1971, accompagnati da una cinquantina di agenti di Pubblica Sicurezza.Dopo due giorni giunse una nave con a bordo i carabinieri ed una traghetto con altri militari (circa 500) e mezzi da sbarco (camion ed idranti) che non serviranno a niente anche perché sull’isola vi erano soltanto dei sentieri.Fra l’altro ogni azione di protesta e di sciopero generale non sortì l’effetto sperato, cioè quello di trasferire altrove il gruppo dei mafiosi, i quali , a loro volta,si lamentavano per la vita dura che trascorrevano sull’isola.

Lo stesso Badalamenti, intervistato da un giornalista, con un tono di voce ed espressioni articolate e sicure che lo contraddistinguevano, sosteneva che a torto veniva ritenuto un mafioso.
Intanto gli abitanti di Filicudi decisero, con strazio e dolore, di partire dall’isola, portando con loro anche gli ammalati ed alcuni animali domestici.Un vero e proprio esodo di massa che, però, fu determinante per convincere la Corte D’appello a trasferire i mafiosi (che si trovavano da un mese a Filicudi) nell’isola dell’Asinara, in Sardegna a bordo della nave militare “Aldebaran”.
Diversi anni fa, Gaetano Badalamenti (detenuto nel carcere di Fairton -Stati Uniti dove è deceduto) era stato condannato all’ergastolo dalla Seconda Corte D’Assise di Palermo per essere stato il mandante dell’omicidio di Giuseppe Impastato, il giovane militante di Democrazia Proletaria ucciso , a Cinisi, l’8 maggio del 1978 che, con la sua radio libera aveva denunciato le collusioni tra mafia e potere politico siciliano.

La storia di Giuseppe Impastato è stata raccontata nel film “I cento passi”:
Badalamenti era diventato il bersaglio della coraggiosa ironia del giovane che ,tramite il microfono della radio lo definiva “Tano Seduto” e lo accusava di essere il capomafia del paese, un trafficante di droga e di altri traffici illeciti.
All’epoca i killer della mafia cercarono (e ci riuscirono) di depistare le indagini e prepararono una messinscena nella quale doveva apparire che Giuseppe Impastato era saltato in aria mentre cercava di compiere un’azione terroristica, collocando una bomba ai piedi di un traliccio lungo la linea ferrata nei pressi del suo paese.
Soltanto molti anni dopo gli investigatori, con l’aiuto dei collaboratori di giustizia, sono riusciti a scoprire che l’ordine di assassinare in modo così brutale il giovane era partito da Cosa Nostra.
E poi è arrivata la sentenza (accolta con commozione dalla madre Felicia) che ha posto fine alla lunga impunità di Tano Badalamenti perché “giustizia è stata fatta”.

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Ecco una serie di foto rinvenute nell’archivio del quotidiano l’Unità. 

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