Da Roma in linea Silvano Saltalamacchia

SSALTALAMACCHIALIPARIPICCOLA.jpgdi Silvano Saltalamacchia

Molte persone scrivono del loro rapporto con l’idea del suicidio. Io proverò a scrivere la lettera “del giorno dopo”, quella di quando ci si è suicidati.

Cara Vita, ieri mi hai lasciato. A dire il vero, non ti ho mai avuta per intero. Certo, da fuori, anche io come molti potevo sembrare una persona vitale, ma dentro…beh, tu lo sai bene. Per anni sono stato male, mi hai fatto del male, mi sono fatto del male, e per cosa? Solo per essere un uomo come gli altri, stesse speranze, stesso diritto alla vita e al futuro, stesso entusiasmo. Ma niente! Mai una volta che tu me l’abbia fatta passare liscia, mai una volta in cui ho potuto essere spensierato, mai una felicità gratuita, da non dover poi scontare dopo. Mai. E dire che io ti amavo, e tanto anche. Ti volevo, fin da adolescente, ti aspettavo come si aspetta il primo bacio, il primo amore, ti volevo raggiungere, essere come te.

E invece, nel mio breve percorso fino a te, ho constato sempre che il mondo non mi appartenva, no, il mondo era dei furbi, degli svelti, dei disonesti, di chi non ti amava. E già, quelli che non ti hanno mai amato, cara Vita, l’hanno sempre passata liscia, hanno corrotto, distrutto popoli, hanno fatto le guerre, quelli che non ti hanno mai amato tu li hai fatte sempre sedere sul tuo trono.
E io che ero un uomo, di 61 anni e già senza speranze, in fondo che cosa potevo fare? Se a 61 anni, ero completamente solo con me stesso, ti chiedevo “Quando arrivi?”, se dopo una lunga, terribile depressione, passata a guardare il soffitto del mio Hotel, ti pregavo “Vita vieni, rendimi libero!” tu venivi mai, mai mi ascoltavi, eri altrove…

E adesso, che sono io altrove, che mi dici? Mi dici quello che dicono di me? Le boiate che sento uscire dalle persone che per strada nemmeno mi salutavano e adesso hanno fatto le corone al funerale? E dire che tutti sapevano, tutti vedevano che stavo male, ma mai che uno si sia azzardato a dirmi “Se hai bisogno di una spalla questa mia è pronta a reggere la tua testa”, mai che qualcuno abbia osato un conforto, una mano, una parola, che ci voleva? Se ne dicono tante di stupidaggini in 5 minuti, che ci voleva a dire un “Ti capisco”. No, nulla. E invece sempre a dirmi “Tu devi”, “Tu sei così”, “Tu sei colà”, mai una volta che non ci si aspettasse miracoli da me, mai che io potessi essere giustificato, sanato. No, i giusti, i sani, i santi erano sempre gli altri, i figli imbecilli, le teste montate. A loro si, bisognava sempre giustificar qualsiasi comportamento, qualsiasi sfogo, loro si, i perfetti.

Ma si sa, in fondo la gente non c’entra, ha i fatti suoi, le sue miserie. Ognuno ne ha. Eppure, io non ero uno di quelli che ammorbava gli altri, che imprecava, che annunciava di continuo il suo suicidio, o che si lamentava,il mio sorriso e le mie parole di conforto sul Corso Vittorio Emanuele quando mi fermavo un attimo erano parole e speranze belle per tutti. Di quelli che poi alla fine fanno morire gli altri e loro non muoiono mai, anzi campano fino a 100 anni, dopo che hanno succhiato tutte le energie vitali di chi sta loro vicino a sorbirsi le fandonie emo dark sad grunge e tutte le altre depressioni che vanno tanto di moda. E già perché di questi tempi, dire di essere depressi è diventata una cosa trendy, se non sei depresso sei uno schifoso nobilotto, di quelli con gli occhiali non firmati.

… Ma ok, ora tutto questo è lontano da me. In fondo, io non ero che un uomo che sognava molto, forse. Sognavo un mondo diverso, dove le persone si venivano incontro invece che allontanarsi sempre di più usando ogni mezzo di comunicazione a distanza, dove si cercava di ascoltare l’altro prima di giudicarlo. Ma niente. Adesso, anche chi mi conosceva bene, dice “Non era il tipo da fare una cosa del genere, non ne sapevo nulla”. E già, non sanno mai nulla. Come se uno dovesse andare in giro col cartello “Aiutatemi”.

Ma torno a te, Vita. Insomma, alla fine, ti ho abbandonata, o mi hai abbandonato tu, non si sa. Ma una domanda voglio fartela: che ci hai guadagnato? Cosa ti è entrato in tasca a farmi patire tante disgrazie? Hai riso? Ti sei divertita? O che altro? Quando per 61 anni mi hai negato la gioia della vita , quando vedevo gli altri gioire.. e io, rimasto da solo con i miei pensieri, sbattuto lì come un verme a contorcermi dalla tristezza e dall’amarezza perché non potevo piu’ essere come gli altri,potere guradare la mia famiglia e sorriderle , tu che ci hai intascato? Ecco, questa è la domanda. A voi, che meditate, riflettete sul suicidio, sulla vostra fine, rispondete: La vostra vita cosa si mette in tasca?

Da Roma in linea Silvano Saltalamacchiaultima modifica: 2013-04-03T14:05:00+02:00da leonedilipari
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