Da Santa Marina Salina in linea Teodoro Cataffo

 di Teodoro Cataffo

teodoro cataffo.pngCasa al mare-Le Favole-Emma ed il fiore-2006

Quando successero questi fatti Emma aveva solo quindici anni. Sua madre era morta nel darla alla luce e suo padre viveva solo per lei, per quel suo piccolo gioiello. Era bellissima come la madre, anche di più. Vestita a festa, con quello strano fiore tra i capelli chiari, sembrava una dea. Camminava come se i piedi le poggiassero sul velluto, il suo respiro era lieve e profumato, i suoi occhi verdi lanciavano sguardi luminosi. Tutto il suo corpo aveva una vitalità misteriosa ed ammaliante. C’era un ragazzo che piaceva molto ad Emma ma con lui aveva scambiato solo qualche occhiata.

Lo vedeva sempre quando la sera passava sotto la sua finestra che dava sul vicoletto, ed i passi di lui sulle pietruzze di mare che lastricavano la stradina la facevano distrarre da quello che stava facendo. Egli stava tornando dalla pesca, e poi la mattina lo risentiva quando ancora presto egli andava a zappare l’orto di qualcuno per guadagnarsi la giornata. Emma così viveva le sue giornate, in compagnia di suo padre e del pensiero del giovane. E poi la notte lo sognava sempre. Un giorno, mentre era intenta nella sua campagna a raccogliere l’erba per gli animali, sentì un fruscio dietro una siepe. Si sentiva osservata, ma da chi? Continuò a raccogliere l’erba facendo finta di niente. Un altro fruscio. Alzò gli occhi e lo vide. Era lui, il ragazzo dei suoi sogni. Il cuore le batteva come impazzito ed il viso le era diventato rosso. Faceva caldo, alcune gocce di sudore le bagnavano la fronte. Lui le andò vicino.

 
Emma adesso sentì il profumo della sua pelle. Anche il ragazzo era felice di stare con lei. I loro volti erano vicini, con gli occhi che si guardavano, e poi le mani si cercavano e le labbra si sfioravano. Emma era dolce, la sua saliva aveva il sapore del miele, il suo sudore l’acre profumo della verginità. I fiori della loro vita si strinsero, come sbattuti da un vento impetuoso. Sempre più forte sentivano salire la sensazione che solo in sonno avevano provato. Una sensazione che, come il vento, scuoteva i petali di rosa e di gelsomino della loro natura. Il respiro affannoso, la stretta forte e spasmodica, i muscoli tesi. Emma voleva capire cosa stesse succedendo al suo amore, ma non ebbe il tempo, perché ella stessa cominciò a vibrare. Sentiva le gambe inquiete, il seno indurirsi, le labbra gonfie e non riusciva ad aprire gli occhi. Sudati e bagnati, pieni per tutto il corpo di erba e fiorellini, colpiti dal sole e strapazzati dal vento, ebbero insieme un sussulto. Il sussulto dell’amore.
 
La gioia che Ella provava era tanto grande. Tenerlo così, stretto a sé, dopo essere stata sua. Emma allora pensò come poteva essere bello volare in alto nel cielo e gridare la gioia. Era sceso un po’ il sole all’orizzonte e stava immergendosi nel mare. L’aria azzurrina, tersa e nitida nella sera, era ancora ben rosata e l’imbrunire sembrava aspettare. La cima del monte era nascosta appena da una nuvola chiara ed il mare, giù, spumava sui ciottoli del Brigantino. Emma ed il suo amore erano lì, abbracciati sull’orlo del grande vallone. A metà strada nella montagna. Fu allora che Emma desiderò davvero volare e, tratto un profondo respiro, si alzò in cielo tenendo abbracciato a sé il suo amore e volò veloce, giù, verso il fresco mare. Poi, come in una forsennata corsa senza meta, rivolò su per la montagna e ancora giù verso il mare e poi lontano verso il sole gridando la sua gioia.
 
Le sue grida e le sue risate riempirono il cielo del suo villaggio, ed anche attrassero gli uccelli del cielo che dietro le volarono in coda. Abbracciata al suo amore volò per tutta la sera, anche quando l’imbrunire non poté più aspettare e pure tutta la notte, sopra le lanterne accese del suo paese. E quando al mattino, stanca ed ebbra di gioia, scese sulla spiaggia vino al mare, si accorse ch’egli era morto. Era morto d’amore. Emma poggiò la sua testa sul ventre di lui e così dormì. Il tempo passò ed Emma mostrava a tutti i segni della sua gravidanza. Era orgogliosa di sé e del frutto che portava in grembo. Ella, però, sapeva adesso della diversità della sua natura e aveva tanta paura di non poter generare il frutto del suo amore. Abitava, allora, alla estremità nord del paese una vecchia comare che tutti dicevano fosse una strega.
 
In verità la vecchia comare era solo una che aveva l’occhio pesante con chi le voleva male, ma sapeva anche aiutare chi glielo chiedeva. Emma l’andò a trovare. La vecchia raccontò alla ragazza che tanto tempo fa, qui, viveva, in una grotta della montagna, uno strano essere che aveva le sembianze dell’uomo, ma volava come gli uccelli. Il suo viso era come quello degli angeli e tutte le ragazze facevano a gara ad andar a trovarlo. Però, forse, nessuna di loro era riuscita ad avere un figlio da lui. La vecchia non disse, ad Emma, che tutte erano morte prima di partorire, tranne sua madre, ma le promise che l’avrebbe aiutata. La vecchia comare ammirava il coraggio di Emma e decise che non appena quella fosse morta, l’avrebbe davvero aiutata lo stesso a far nascere il frutto che portava in grembo. Prese quindi una grande giara di coccio, dentro la quale preparò un infuso speciale, fatto di erbe e di ali di uccello, di code di lucertole, di miele d’api, di acqua di mare e di spremuta di arance, di fiori d pesco e di bucce verdi di mandorlo, di radici di ulivo e di foglie di alloro e di menta.
 
E mentre recitava le preghiere vi buttò dentro i fiori più belli del villaggio con i loro profumi ed i loro colori. Mescolò tutto e, dopo averlo fatto bollire un bel po’ su un grande fuoco di tronchi di tamerici, lo coprì con un velo trasparente, e aspettò. Quando Emma, ad appena qualche settimana dal parto, morì insieme al frutto che portava in grembo, la sotterrarono nella nuda terra dell’orto di casa dove il padre ancora visse per un po’. Tutti ogni tanto andavano e lasciavano fiori e doni. Vi andava spesso anche la vecchia comare e senza farsene accorgere versava, ogni volta, sulla tomba un po’ di quell’infuso che aveva preparato. Ciò avvenne per molto tempo, fin tanto che la vecchia comare morì. Intanto dentro il corpo di Emma, tenuto caldo ed umido dall’infuso magico versato per lungo tempo, trovava strada una antica radice e si impossessò di esso.
 
Quella primavera il padre di Emma uscì nell’orto e con grande meraviglia vide che sulla tomba della figlia, della sua dolce Emma, rigogliosi rami erano cresciuti, tenuti su da un piccolo tronco nodoso. Avevano un colore verde violaceo e le foglie erano verde scuro. Tanti piccoli bottoncini erano disposti in fila su ogni rametto e verso il tronco diventavano più grossi, mentre gli ultimi giù si erano aperti in un fiore bellissimo. Un fiore che gli ricordava qualcosa, ma chissà che
cosa. Egli pianse tanto quel mattino senza capirne il perchè e poi andò al lavoro. La sera, prima di rincasare, passò ancora nell’orto, a guardare la strana pianta nata sulla tomba di Emma, e s’accorse che i fiori erano appassiti. Decise allora di raccogliere i bottoncini ancora chiusi e li portò in casa mettendoli dentro una ciotola e coprendoli con un po’ di sale per farli durare più a lungo.
COSI NACQUE IL CAPPERO.
Da Santa Marina Salina in linea Teodoro Cataffoultima modifica: 2011-11-29T14:32:00+01:00da leonedilipari
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