Da Santa Marina Salina in linea Teodoro Cataffo

tcataffo.jpgdi Teodoro Cataffo

 “CASA AL MARE”. CAPITOLO 3°. Le zie. 1985.

Questa casa quando ci stavo, la vivevo come qualcosa che mi apparteneva ed a cui appartenevo. Era il rifugio estivo in cui vivere finalmente la mia famiglia lontano dalla rigidità educativa delle  zie. Le zie erano tutte non sposate, o meglio, come dicevano loro, signorine. E così avevano sempre in casa un nipote da educare, crescere e sul quale manifestare il loro affetto materno. Potevano essere dolci ma anche severe.

Che tremenda tortura alzarsi alle quattro del mattino per andare giù nel palmento a pigiare l’uva. Si pigiava con i piedi dopo averli ben lavati nel banu (vaschetta rotonda di terracotta all’interno smaltata bianca e verde) e sempre in compagnia del signor Giuseppe, un uomo alto, magro, un po’ ricurvo in avanti, con un grande naso aquilino, con spessi occhiali e infiniti piedi bianchi. Lo vedevo anche alle feste dei combattenti e poi la domenica a messa.   Quando pigiava la vinaccia zampilli di liquido rossastro spruzzavano da mezzo i suoi ditoni e scivolando attraverso un buco andavano a cadere nel fondo interrato del palmento. Prima di azionare la grossa pietra e appenderla ad una robusta trave, per mezzo di un ingegnoso sistema, per dare l’ultima schiacciata alle vinacce dalle quali con i piedi non si riusciva più a tirare fuori una goccia di vino, si faceva colazione. Il pane raffermo, caliatu al sole, si mangiava nei piatti vecchi di alluminio condito a caponata.

Messo dentro lo scolapasta di alluminio, bagnato con acqua calda e condito con aglio, olio, acciuga, origano e pochi chicchi grossi di sale, alle nove del mattino aveva un gusto particolare e saziante. E poi mangiare allo stesso tavolo col Signor Giuseppe era una cosa da grandi. I piedi sporchi di mosto, prima di essere lavati, dovevano testimoniare in giro per il paese e per tutto il giorno, la fatica sostenuta. Le zie intanto preparavano nel sotto scala il fuoco per la mostarda e per il vino cotto che sarebbe servito per la cucina e per i dolci di Natale. La mostarda si poteva mangiare calda o anche fredda con le mandorle tritate in mezzo.

Ai primi di dicembre una frenesia si impadroniva delle zie.    Era come se fossero in ritardo, come se quell’anno avessero dimenticato di preparare in tempo qualcosa per il Natale. Dopo la novena in chiesa e dopo una cena frettolosa, come ad ubbidire ad un antico rito, dividendosi i compiti, si mettevano all’opera. Una cassa di legno aperta chiamata “matta” era posta sulla panca e le zie Vitina e Marina cominciavano ad impastarvi dentro la farina. Era il momento dei vastedduzzi. I cosiddetti vastedduzzi erano i dolci di Natale.

Un impasto di mandorle, profumato con leggerezza al mandarino, avvolto in pasta bianca sottilmente stirata col cannello, veniva modellato quindi secondo la fantasia. Il dolce, appena liberato dalla pasta in più che veniva tagliata con la rondellina a zig zag, in ultimo subiva il pizzicamento. Per il dolce, modellato a rosa, lettera, cuore, chiave, e poi altro, il pizzicamento con il pizzicaruolo era la parte finale di tutto il lavoro. Importante e delicato il pizzico, quasi un merletto, conferiva al vastedduzzo appena cotto una elegante presentazione della forma prescelta. Le zie cuocevano i dolci nel forno a legna e il risultato era una meravigliosa visione, un fantastico gusto, ma principalmente, per un raggio di centro metri, era un gradevolissimo, inspiegabile, sottile e travolgente profumo.

Da Santa Marina Salina in linea Teodoro Cataffoultima modifica: 2011-11-11T13:28:00+01:00da leonedilipari
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