SECONDO il Corriere della Sera, fra le 6mila persone che ascoltavano, in silenzio e sgomento, alla Festa del Fa t t o, un dibattito dal titolo: “Due anni di stragi. Vent’anni di trattativa”, (starring i pm Ingroia e Di Matteo, il giudice Caselli e l’implacabile Travaglio), “si percepiva una atmosfera diffusa di ‘siamo solo noi'”. La formula è suggestiva ma non è chiara. A che sentimento allude, il corrierista? Al senso d’appartenenza, questa soddisfazione identitaria ormai dimenticata? Alla gioia di coniugarsi nella prima persona plurale, sfuggendo alle frustrazioni dell’Io o piuttosto alla presunzione di un corposo manipolo di illusi, che si ergono a giudici del medio malaffare mondiale?
C’ero, seduta in seconda fila, e con tutti “i percettori d’atmosfera” allertati: non ho sentito fischiare la spocchia di quelli che si credono gli eletti, ma il silenzio degli innocenti. Un silenzio teso e drammatico. Un bisogno di stringersi gli uni agli altri per far fronte alla fatica di vivere in un Paese come l’Italia. Con le sue stragi senza colpevoli, con i suoi accordi segreti, con i suoi poteri occulti, con i suoi martiri celebrati e dimenticati, con le sue ipocrisie velenose, con il suo conformismo complice, con il crimine incistato nel corpo stesso delle istituzioni (lo Stato siamo noi o sono loro?) e destinato a proliferare. Gli applausi, forti compatti continui, parlavano di voglia di partecipazione. E anche, ahimè, di voglia di ammirazione. Come se fossimo tutti un po’ stanchi della latitanza dei “buoni”, stufi di disprezzare. Forse l’atmosfera percepita va corretta così: non “siamo solo noi”, ma “noi non siamo soli”. Ed è già un bel passo avanti.