Rassegna Stampa. “Il Manifesto” e gli ex lavoratori della pomice

bluigipiccola2.jpgdi Luigi Barrica

Il Manifesto” Giovedì 18 marzo 2010

Lipari POMICE IN SCIOPERO
Licenziati, in cassa integrazione o in mobilità. È il destino degli operai della Pumex sull’isola eolica. In 13 digiunano contro la chiusura delle cave: «Quest’anno niente processione a Pasqua». Una vertenza lunga tre anni, con la beffa di un megaporto mai nato
Questo è un posto nel quale l’assurdo è concepito quotidianamente. Questo è un luogo nel quale ogni anno transitano almeno due milioni di visitatori. Turisti che sbarcano da ogni dove, pronti a tuffarsi, non soltanto in un mare limpidissimo; ma anche nella storia documentata che snocciola nove millenni di civiltà. Siamo all’arcipelago delle Eolie, sette belle e affascinanti isole. Bianche, per le colate di pomice; nerissime ed accecanti per le lingue di ossidiana che sembrano segare l’isola. Gli estremi, sintesi di un unico materiale lavico che mostra due facce assolutamente opposte. Così come le condizioni sociali degli eoliani. Qui c’è gente che, affittando di tutto, persino un fazzoletto del loro giardino di casa dove piantare le «canadesi», mettono in banca dai 200 ai 250 mila euro l’anno, il più delle volte esentasse. E c’è chi, invece, dall’8 marzo scorso, occupa la stanza del sindaco di Lipari attuando lo sciopero della fame. Si sciopera perché si sta morendo di fame. Tredici ex operai ed ex dipendenti della Pumex stanno rischiando perché licenziati o in cassa integrazione o in mobilità. Si stanno lasciando morire perché, chiusa quella fabbrica, in 38 sono stati mandati a casa. La storia, triste storia, è segnata da atteggiamenti vigliacchi, da ricatti elettorali, da guerre intestine che contrappongono fazioni politiche della stessa corrente (centrodestra), tentativi di consegnare le Eolie nelle mani di potenti industriali, alcuni indagati per mafia, pronti a trasformare le Eolie in arcipelaghi come le Baleari o le Hawaii.

Chiudono le cave
Tutto ha inizio il 30 agosto 2007. Le cave di pomice vengono chiuse. Arrivano i carabinieri, appongono i sigilli e tutti vengono spediti a casa. I militari eseguono un ordine della magistratura che accusava i vertici aziendali di aver continuano ad estrarre abusivamente la pomice da zone per le quali non esisteva il rinnovo della concessione. Inoltre, si accusava quell’azienda di continuare uno scempio paesistico sull’intero territorio. Insomma, l’azienda, secondo i magistrati stava operando illegalmente e arrecando un danno fondamentale a tutto l’habitat circostante. Passo indietro.
L’Unesco, dal 2000, aveva inserito l’intero arcipelago eoliano tra i siti patrimonio dell’umanità, fino ad allora unico sito globale in Italia. Poi arriveranno le Dolomiti. Ma, condizione per poter continuare a fregiarsi di quel titolo, a Lipari l’escavazione della pietra pomice sarebbe dovuta cessare. Gli operai comunque non andavano licenziati. Si sarebbe dovuto operare una riconversione aziendale e mettendo i luoghi in sicurezza. Anche attraverso finanziamenti pubblici, quell’azienda avrebbe potuto trasformare ruderi ed uffici, in perfetta armonia con l’ambiente, in piccole strutture alberghiere che, fra l’altro, avrebbero assicurato l’occupazione a quei dipendenti. Trascorrono gli anni, ma la Pumex continua a scavare. Di mezzo ci sono politici i quali sanno che quella azienda può assicurare un certo numero di voti. Preferenze attribuite a chi, da una parte o dall’altra, una volta eletto, si sarebbe impegnato a proseguire quell’attività. L’Unesco, intanto, continua ad esercitare pressioni affinché quell’accordo venga rispettato; ma, tra riunioni, convegni, tavole rotonde, trattative, ricorsi ed appelli, si giunge a quel 30 agosto del 2007. Da allora la Pumex viene chiusa e quindi tutti a casa. Ed è proprio da quel giorno che inizia il calvario per i dipendenti. Complessivamente ad essere spediti a casa, tra maestranze ed indotto, sono circa 100 persone. «Deve essere chiaro che le cave non sono state chiuse su richiesta dell’Unesco, ma perché è intervenuta la magistratura per sanare gli abusi», ribadisce Giacomo Biviano, consigliere Pd all’opposizione.
Una parte ottiene il prepensionamento; 25 sono in cassa integrazione, 13 in mobilità. In tutto 38 dipendenti con famiglia monoreddito. Tre mesi ailmanifesto.jpgfa, quei 13 perdono la mobilità. Tra loro 3 ragazze che, di fatto, hanno guidato l’occupazione in concomitanza con la festa della donna. Una di loro, Neda Saltalamacchia, dopo cinque giorni viene ricoverata in ospedale per astinenza alimentare. Ma prima di lei altri 6 colleghi erano stati soccorsi dal 118 e trasferiti al nosocomio eoliano. «Non appena saremo dimessi torneremo a lottare» dice Neda. «Non abbandoneremo i nostri compagni. Ritorneremo nuovamente in quelle aule e occuperemo il consiglio comunale. Proseguiremo lo sciopero della fame, così, come accaduto per me e altri compagni, quelli che stanno male vengano sostituiti da altri. Sarà una catena. Anche i familiari e i parenti dei nostri compagni ci stanno aiutando». Attualmente nel palazzo municipale di Lipari ci sono un centinaio di occupanti. Qualche giorno fa è stato bloccato il consiglio comunale. Una miccia accesa. Forze dell’ordine e prefetto sono in allerta. Soprattutto le donne minacciano apertamente una forma di contestazione singolare: «Quest’anno non faremo svolgere la processione di Pasqua. Ci sdraieremo per le vie dell’isola e se occorre bloccheremo anche i porti. Quest’anno Pasqua non verrà per nessuno. Da tre anni questa ricorrenza noi non la possiamo festeggiare, non possiamo più permetterci nemmeno il lusso di acquistare un regalino per i nostri bambini». «Vergognati – si grida in consiglio comunale – Vergognati sindaco. Abbi le palle. Ma che c.. di sindaco sei, abbi il coraggio di dimetterti. Vai a casa insieme ai tuoi assessori e che si sciolga lo stesso consiglio comunale. Siete stati presi in giro, ed insieme a voi hanno mortificato noi. Gli accordi non sono stati mantenuti».

Gli accordi non rispettati
Già, gli accordi. In effetti i licenziati dovevano essere assunti dall’assessorato ai beni culturali per trasferirsi poi nei musei eoliani. Non s’è fatto nulla e, quel sindaco, non può lasciare la carica. Se si dimettesse lui, Mariano Bruno, esponente di punta del centrodestra, chi realizzerebbe a Lipari quel megaporto da circa 130 milioni di euro? La grande opera sbandierata in campagna elettorale e che, tutto sommato, gli ha assicurato l’elezione a primo cittadino del comune di Lipari . Un porto che, realizzato da una società privata, «Condotte d’acqua», prevede tra l’altro posti barca per 700 unità; attracchi di centinaia di metri come fossero tentacoli e che chiudono l’intero porto di Lipari . Ed ancora: magazzini, infrastrutture, cementificazioni, muraglioni alti anche otto metri, tutto messo nero su bianco. E, dulcis in fundo, quella struttura non gestita dagli eoliani ma da imprenditori che sbarcano per i prossimi cinquant’anni. Il sindaco di Lipari , insieme ai suoi amministratori, lo ha sponsorizzato. Ora però sembra che per realizzare quel porto, in effetti, si siano cedute le cave di pomice. In buona sostanza come si faceva a far passare un progetto – che di fatto ancora dev’essere completamente approvato – in un luogo come le Eolie patrimonio dell’umanità quando, di fatto, c’erano anche le cave che venivano sfruttate? A questo punto meglio chiudere le cave, tutto sommato economicamente in attivo; far vedere che esiste un tasso di disoccupazione (vista anche la precarietà dei pescatori) e, quindi, come contropartita, dire all’opinione pubblica che realizzando quel porto tanti problemi sarebbero stati risolti. Un modo come un altro per dire all’Unesco: «noi vi abbiamo ceduto le cave, non si pesca più nei nostri mari, lasciateci realizzare un megaporto senza che le isole vengano depennate da sito dell’umanità».

Gli effetti collaterali
I calcoli erano perfetti, tutto sommato cosa possono sembrare 50 operai sul lastrico? Vittime collaterali. Soltanto che, questo è il paradosso, le cose non sono andate come avrebbero voluto sia alla regione che al comune di Lipari . Il diavolo fa le pentole e non i coperchi. Infatti, nel luogo dove sarebbe dovuto sorgere quell’immenso megaporto, è stato individuato mesi fa, un porto di età romano-imperiale, ricco di preziosi reperti archeologici. Alla luce colonne, vasi, pavimenti, arcate, insomma un vero e proprio tesoro ad appena sette metri di profondità. A questo punto le cave di pomice sono chiuse, gli operai licenziati, e quel fantomatico porto non verrà mai realizzato. «Un dato è certo – assicurano le donne che continuano ad occupare quel municipio – non ci arrenderemo».

Link: http://www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20100318/pagina/15/pezzo/273957/

Rassegna Stampa. “Il Manifesto” e gli ex lavoratori della pomiceultima modifica: 2010-03-20T09:15:17+01:00da leonedilipari
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