Eolie, viaggio di marinai, venti e donne volanti

eolie1.jpg“Isola è termine d’ogni viaggio, meta della grande via per cui ha navigato la civiltà dell’uomo” scriveva Vincenzo Consolo nelle “Isole dolci del Dio”.

La Sicilia e e le sue isole non sono più quelle di cui scrivevamo vent’anni fa, un terzo di quel mondo sopravvive, il resto è cambiato. L’isola approdo a un mondo di conoscenza, progetto della storia in parte è stato cancellato e questo viaggio sui luoghi dei nostri racconti è la metafora del mondo in continuo cambiamento dove ricordare bisogna ma non per andare in depressione ma per immaginare un nuovo mondo.

Le isole dolci del Dio continuano a essere il grembo materno nel quale trovare spazi e silenzi sovrumani. Il monte Pelato con le sue pomici che originavano la spiaggia caraibica non c’è più. Il furioso Nettuno lo Scuotiterra ci ha accolti con le saettate del suo tridente, ma a sera nel porto di Ponente a Vulcano la sua Fucina ci ha accolti col rosa dei suoi tramonti indescrivibili. Tutte le strade portano al bar Remigio era l’incipit di quel primo racconto di ” Venti marinai e donne volanti”. . I bagni di fango non sono più liberi e anche alle acque calde si arriva a compimento dell’tinerario. Hanno costruito anche ” I Pagghiari” per accogliere i giornalieri dei fanghi. Solo l’aria non si vende che aspiri ad ampie volute con le sue zaffate di zolfo. …………….

VIAGGIO ALLE EOLIE DI MARINAI, DI VENTI E DONNE VOLANTI

di Giuseppe Alibrandi

La prua della Caravaggio aprì la sua bocca di squalo e vomitò l’esercito di pendolari, forzati giornalieri delle terme e dei fanghi di Vulcano. L’isola era una pietrafocaia che rinfocolava i suoi elementi primordiali di terra acqua aria e fuoco. Poco distante dal bar Remigio, attendevo, sul molo, l’attracco della nave squalo. Ero andato a fare un sopraluogo: a giorni mi sarei imbarcato per Lipari. Tra la folla, in attesa, scorsi il mio potenziale interlocutore. Era un uomo calvo, olivastro; stagionato e composto come un graduato abituato a consumare veglie e pedinamenti. Faceva al caso mio.

L’uomo mi introdusse nei meandri misteri dell’isola, mi parlò dei suoi forestieri, coloni messinesi e catanesi; mi fece l’elenco di quel poco che ancora il turismo di massa non aveva sporcato, offrendomisi da guida per quei pochi giorni che sarei rimasto a Vulcano. Più sopra del bar Remigio – tutte le strade a Vulcano portano al bar Remigio – feci la mia conoscenza con un corvo misantropo che, non meno del mio informatore al porto, anche lui aveva a noia quell’andirivieni sull’isola e ripeteva epiteti irripetibili all’indirizzo dei passanti spostandosi di continuo sulla gruccia, facendo le spallucce con le ali senza remiganti.

Una ad una avrei ritrovato le antiche affabulazioni sulla gente di mare, apprese ai focolari, sulla costa: Genoveffe e donne volanti che vagavano per l’isola di Spartivento; mastri d’ascia che sotto pergole di uva sultanina calafatavano caicchi marticani e palamitare che sopra e sotto vento solcavano le onde per l’isola di Spartivento. Indelicato fu il mastro d’ascia che sulle rive di Canneto sagomò

l’ultima Maria Marticana. Sulle rive di Macumbo le donne la vedevano spuntare all’orizzonte col mare grosso e il vento in poppa cercare lo scaro sulla spiaggia e lanzare da bordo una fune che scampasse tutti dal malotempo. Del bosco conservavano l’impeto del vento le barche di mastro Indelicato e sulla costa non c’era palamitara o caicco che a remi o a vela potesse superare la Maria Marticana. Partivano a remi e con le isole a portata di mano: gli uomini di Macumbo avevano imparato a leggere il tempo guardando le Eolie.

Gli abitanti della costa puntavano sulle isole il barometro del tempo. La foschia era scirocco o levante; nuvole basse, in cui il sole si insaccava al tramonto, erano presagio di maltempo; dal canale di ponente irrompeva Eolo gonfiando le acque fino a riempire le case di Macumbo costruite sulla sabbia. Sotto alla lanterna di Vulcano malotempo incoglieva i naviganti e per loro le mavare supplicavano il san Giorgio a cavallo: sopra vento, sotto vento portali all’isola di Spartivento! Sotto

costa, a Gelso, gli uomini si rifugiavano in un vecchio casolare: stendevano i conzi e nettavano gli ami dei rimasugli di esca per rimediare una ghiotta all’inedia del giorno. A quei luoghi di fatica, divenuti meta di turisti, si arriva da Vulcano Piano per una strada che ruzzolando a picco sul mare diventa trazzera. Prima di raggiungere la vecchia lanterna, assiepata dalla macchia mediterranea, c’è Maniaci che non accetta prenotazioni ma offre a tutti, per lo stesso prezzo, l’identico menù: melanzane e pesce fresco, occhiate, gamberi, scampi, totani, dentici.

Barche e rezze sono sulla spiaggia, davanti al terrazzo eoliano, sul bagnasciuga. Intorno i gusci di riccio, le carcasse dei granchi, i paguri con le immarcescibili corazze di gasteropodi vuote, le sardelline, i gamberetti con l’addome vuoto e rinsecchito ancora impigliati tra le maglie delle rezze. Non lezzano di marciume a testimonianza di un mestiere

inventato di notte e smesso solo all’alba per fare posto all’albergatore-ristoratore che s’aggira tra i tavoli del terrazzo, sotto alla pergola di grappoli d’uva smunti, a prendere ordinazioni tra un brulicare di vespe, offrendo ai suoi clienti la vista di un Riace a torso nudo. La luce che qui abbaglia il mare a sera si fa più scura e nera, s’indurisce in lava, perché lava sono gli scogli qui intorno, neri i chicchi di sabbia che vento e mare frantumano contro i ciottoli anch’essi di lava e che i pescatori della costa chiamano màzare: sassi tondi, porosi e levigati da un chilo, mezzo chilo, un quarto di chilo e a scalare tutta la pezzatura degli infinitesimi grammi.

Li ho raccolti sulla sabbia, soppesandoli per esser certo di avere tutta la scala dei pesi. A Gelso il viaggio si fa conversazione e ritorno all’infanzia rivisitata attraverso quei luoghi marinareschi capaci di far regredire i ricordi fino a quelle sere d’inverno quando, accanto al braciere, i nipoti eravamo ammessi alla conversazione dei grandi nella cucina in penombra rischiarata

dal lume a petrolio. Seguivamo il nonno nel suo racconto. Aveva acceso il fuoco sulla spiaggia di Ficarelli. Aveva preparato la ghiotta sugli scogli senza accorgersi di aver cucinato sulla groppa di un pescetonno. Mandò il mozzo a raccogliere le braci e non c’era più segno del fuoco acceso. Donna Genoveffa, col mare grosso, li aspettava intorno al capo d’Orlando, dove remando remando giunse anche la ciurma d’Orlando, il paladino di ritorno dalle crociate.

A tempo di seppie l’incantatrice delle trombe d’aria sul mare, scrutato il cielo d’aprile terso e traslucido, insegnava alla ciurma a sicciare, secondo l’arte antica delle donne di accalappiare l’uomo e farselo marito. Si prelevavano le seppie femmine alla scummiata del coppo del cianciolo e si innescava il richiamo sotto costa per il maschio che con la sua nuotata a reazione andava a infilarsi nella nassa a imbuto protendendo il suo tentacolo

specializzato per il trasporto alla femmina della spermatofora. E a quel punto l’angelo a volo radente sull’acque chiudeva il cerchio e ogni preda era catturata. Nei nostri sogni continuavamo a fantasticare sulla groppa di un pesce tonno amico. Prima di lasciare Gelso e le sue sabbie nere afferrai, furtivo, la barra di un timone da una barca in disarmo in mezzo al canneto. La barra del timone era di legno di frassino di Sicilia, duro e resistente come quello usato per costruire i pioli dei carretti siciliani.

Indistruttibile! Avevo raccolto il mio pezzo di marineria da museo, subito incignato a bordo del dinghj in navigazione da porto Ponente alla grotta del Cavallo e da qui, puntando sulla punta del Perciato, attraverso le bocche di Vulcano, nuovamente al porto di Ponente. “Orza e cazza ! Poggia e fila !“ La Spartivento cerca il maestrale portandosi fuori costa a seguire la silhouette in volo dei pesci rondine, il guizzo della sardella seguito dal tonfo dei cefali, il nuoto dei delfini che squittiscono inabissandosi.

Qui il mare anche quando il sole tramonta non è mai del colore del vino: è di un blu intenso, colore tonno, che il bagliore del sole trascolora in verde azzurro e l’isola che lontana lambisce appare il labbro di un cratere che un Dio irato può capovolgere. Può accaderti di gettare l’ancora in mezzo a un banco di tonni che pasturano fuori di punta Castagna e magari al porto sentirai dire da un liparoto, in attesa dell’aliscafo per Rinella, che anche lui, la stessa mattina, li ha visti migrare al largo di Salina puntando i binocoli dalla sua casa di Malfa. I marinai sono tutti narratori del mare.

Anche senza avere avuto un passato come quello di Achab a caccia della balena bianca, si portano ugualmente addosso una ferita, una mutilazione, un amuleto a ricordo di quell’abbandono vissuto dentro una barca, in balia del mare grosso. Il mare è il ventre della Madre Immensa, grande vuoto e contenitore di gioie e paure, rappresentazione dell’amniotico mare materno che agli albori della nostra infanzia ci ha attratti erepulsi.

Di noi e della nostra Spartivento, uscita dal porto di Ponente per non farvi ritorno che dopo due giorni trascorsi a Canneto tra le acque azzurre iridescenti di punta Spinarello e della Papesca, al Togo-Togo, il camping dov’eravamo attendati, avevano perso ogni speranza dandoci per dispersi. Dispersi senza l’emozione di un naufragio, senza le Donne-Madri Coraggio piangenti sulle rive a tendere la fune lanciata dall’equipaggio perché mani pietose ci portassero a salvamento.

A sera, sul terrazzo del Togo-Togo, nessuno fu sorpreso del nostro rientro, solo il gestore sacramentava sordo come il corvo misantropo all’altro capo dell’isola. L’elicottero dei carabinieri non si era levato in volo per noi e, all’indomani, i giornali della costa non pubblicarono la notizia del nostro naufragio: nell’isola c’erano pochi gettoni e lunghe file all’unica cabina telefonica. Le macchine lungo il viale la facevano da padrone, tante per un’isola senza pompe di benzina. In queste isole il forestiero è forestiero: un isolano glielo legge in volto al turista di passaggio.

Nessuno infatti vi giunse senza conoscere i venti e le rotte dell’ossidiana e del silicio: sicuramente il favore di un Dio l’assisteva! Il navigante forestiero aveva un Dio alle spalle che l’accompagnava! Anch’io volli provare a presentarmi a nome di un Dio. Cacace, un liparoto, mentre dalla Forgia Vecchia scrutavamo la città col suo castello, me ne diede l’estro. Cacace fece di me un Telemaco a Pilo. Mi diede istruzioni sul modo di andare a cercare le migliori ossidiane dell’isola. – Non è per queste rocche che troverai ossidiana ! – – E dove posso io trovarla ? – – Tra le bianche pomici del Pelato ! – – E come potrò io scavare tra le sue bianche pomici ? – Mi manda Cacace ! – mi suggerì di dire il liparoto. E a nome di Cacace ebbi le più belle ossidiane che quel giorno le ruspe avevano scavato tra le bianche pomici del monte Pelato.

A quel “ mi manda Cacace “ il guardiano della Pumex, come sospinto da una atavica reazione istintiva, mi prese con sé e onorando l’ospite mi accompagnò al terrazzo che sporgeva sul mare e mi disse : – Su queste spiagge i fratelli Taviani girarono Kaos.- Qui o dappertutto, in Sicilia, puoi sostenere che sia nato il mondo o che la sua immagine sia più prossima al negativo del suo essere intimo e fondamentale: il bianco e il nero !

Eolie, viaggio di marinai, venti e donne volantiultima modifica: 2013-09-04T11:56:00+02:00da leonedilipari
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