Category Archives: Religione
Rubrica Religiosa a cura di monsignor Alfredo Adornato
Vincere il male con la perseveranza. XXXIII Domenica. Tempo ordinario – Anno C.
(…) «Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere» (…)
Con il suo linguaggio apocalittico il brano non racconta la fine del mondo, ma il significato, il mistero del mondo. Vangelo dell’oggi ma anche del domani, del domani che si prepara nell’oggi.
Se lo leggiamo attentamente notiamo che ad ogni descrizione di dolore, segue un punto di rottura dove tutto cambia, un tornante che apre l’orizzonte, la breccia della speranza: non è la fine, alzate il capo, la vostra liberazione è vicina.
Al di là di profeti ingannatori, anche se l’odio sarà dovunque, ecco quella espressione struggente: Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto; ribadita da Matteo (10,30:)- i vostri capelli sono tutti contati, non abbiate paura. Nel caos della storia lo sguardo del Signore è fisso su di me, non giudice che incombe, ma custode innamorato di ogni mio frammento.
Il vangelo ci conduce sul crinale della storia: da un lato il versante oscuro della violenza, il cuore di tenebra che distrugge; dall’altro il versante della tenerezza che salva. In questa lotta contro il male, contro la potenza mortifera e omicida presente nella storia e nella natura, “con la vostra perseveranza salverete la vostra vita”. La vita – l’umano in noi e negli altri – si salva con la perseveranza. Non nel disimpegno, nel chiamarsi fuori, ma nel tenace, umile, quotidiano lavoro che si prende cura della terra e delle sue ferite, degli uomini e delle loro lacrime. Scegliendo sempre l’umano contro il disumano (Turoldo).
Perseveranza vuol dire: non mi arrendo; nel mondo sembrano vincere i più violenti, i più crudeli, ma io non mi arrendo. Anche quando tutto il lottare contro il male sembra senza esito, io non mi arrendo. Perché so che il filo rosso della storia è saldo nelle mani di Dio. Perché il mondo quale lo conosciamo, col suo ordine fondato sulla forza e sulla violenza, già comincia a essere rovesciato dalle sue stesse logiche. La violenza si autodistruggerà (M. Marcolini).
IIl Vangelo si chiude con un’ultima riga profezia di speranza: risollevatevi, alzate il capo, la vostra liberazione è vicina.
In piedi, a testa alta, liberi: così vede i discepoli il vangelo. Sollevate il capo, guardate lontano e oltre, perché la realtà non è solo questo che si vede: viene un Liberatore, un Dio esperto di vita.
Sulla terra intera e sul piccolo campo dove io vivo si scaricano ogni giorno rovesci di violenza, cadono piogge corrosive di menzogna e corruzione. Che cosa posso fare? Usare la tattica del contadino. Rispondere alla grandine piantando nuovi frutteti, per ogni raccolto di oggi perduto impegnarmi a prepararne uno nuovo per domani. Seminare, piantare, attendere, perseverare vegliando su ogni germoglio della vita che nasce.
Lipari, oggi si festeggia San Bartolomeo
Rubrica Religiosa a cura di monsignor Alfredo Adornato
È l’amore che vince la morte. XXXII Domenica Tempo ordinario – Anno C.
(…) «C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio».
La storiella paradossale di una donna, sette volte vedova e mai madre, è adoperata dai sadducei come caricatura della fede nella risurrezione dei morti: di quale dei sette fratelli che l’hanno sposata sarà moglie quella donna nella vita eterna? Per loro la sola eternità possibile sta nella generazione di figli, nella discendenza. Gesù, come è solito fare quando lo si vuole imprigionare in questioni di corto respiro, rompe l’accerchiamento, dilata l’orizzonte e «rivela che non una modesta eternità biologica è inscritta nell’uomo ma l’eternità stessa di Dio» (M. Marcolini).
Quelli che risorgono non prendono moglie né marito. Facciamo attenzione: Gesù non dichiara la fine degli affetti. Quelli che risorgono non si sposano, ma danno e ricevono amore ancora, finalmente capaci di amare bene, per sempre. Perché amare è la pienezza dell’uomo e di Dio. Perché ciò che nel mondo è valore non sarà mai distrutto. Ogni amore vero si aggiungerà agli altri nostri amori, senza gelosie e senza esclusioni, portando non limiti o rimpianti, ma una impensata capacità di intensità e di profondità.
Saranno come angeli. Gesù adopera l’immagine degli angeli per indicare l’accesso ad una realtà di faccia a faccia con Dio, non per asserire che gli uomini diventeranno angeli, creature incorporee e asessuate. No, perché la risurrezione della carne rimane un tema cruciale della nostra fede, il Risorto dirà: non sono uno spirito, un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho (Lc 24,36). La risurrezione non cancella il corpo, non cancella l’umanità, non cancella gli affetti. Dio non fa morire nulla dell’uomo. Lo trasforma. L’eternità non è durata, ma intensità; non è pallida ripetizione infinita, ma scoperta «di ciò che occhio non vide mai, né orecchio udì mai, né mai era entrato in cuore d’uomo…» (1Cor 2,9).
Il Signore è Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe. Dio non è Dio di morti, ma di vivi. In questo «di» ripetuto 5 volte è racchiuso il motivo ultimo della risurrezione, il segreto dell’eternità. Una sillaba breve come un respiro, ma che contiene la forza di un legame, indissolubile e reciproco, e che significa: Dio appartiene a loro, loro appartengono di Dio.
Così totale è il legame, che il Signore fa sì che il nome di quanti ama diventi parte del suo stesso nome. Il Dio più forte della morte è così umile da ritenere i suoi amici parte integrante di sé. Legando la sua eternità alla nostra, mostra che ciò che vince la morte non è la vita, ma l’amore.
Il Dio di Isacco, di Abramo, di Giacobbe, il Dio che è mio e tuo, vive solo se Isacco e Abramo sono vivi, solo se tu e io vivremo. La nostra risurrezione soltanto farà di Dio il Padre per sempre.I
Eolie, la commemorazione dei defunti. Perchè non lasciare le lampadine accese per tutto novembre?
Lipari -Alle Eolie cimiteri illuminati in occasione della ricorrenza dei cari defunti, ma solo per pochi giorni. L’ex assessore Bartolo Lauria al momento del suo insediamento aveva proposto di “illuminare” i cimiteri tutto l’anno. Poi l’idea saltò anche per il defenestramento dell’assessore. Ora sono in molti i cittadini a chiedersi: “illuminare i defunti tutto l’anno sicuramente avrà un costo eccessivo, ma almeno il mese di novembre con qualche sacrificio si potrebbe pure fare…”.
– E’ giunto il giorno di accarezzare i nostri cari marmi umani, ora chiari ed ora tempestati di anni trascorsi che lasciano comunque il viso del ricordo sempre più bagnato dalle nostre lacrime d’affetto. Si dice che non ci sono più i nostri cari, ma tutti sappiamo invece che il cuore di ogni nostro corpo ha una cassaforte per contenerli. Sempre. Almeno in questa vita ed in questo giorno che apriamo lo sportello, facciamo uscire la gioia ancora più forte di tutti i ricordi che non svaniscono con l’aria ma si accoppiano alle preghiere ed agli sguardi in cielo ed in terra ma anche sotto terra. Sicuramente loro ci sono, noi non sappiamo se ci siamo e come.
Rubrica Religiosa a cura di monsignor Alfredo Adornato
Lo sguardo di Gesù libera l’uomo. XXXI Domenica. Tempo ordinario – Anno C.
(…) Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto» (…).
Zaccheo ha un handicap (la bassa statura) e un desiderio (vedere Gesù) e, a questo conflitto tra due forze che potrebbero annullarsi, risponde con creatività e coraggio, diventando figura di tutti coloro che, anziché chiudersi nei loro limiti e arrendersi, cercano soluzioni, inventano alternative senza timore di apparire diversi. Nella vita avanza solo chi agisce mosso dal desiderio e non dalla paura.
Allora corse avanti e salì su di un albero. Correre, sotto l’urgenza del richiamo di cose lontane, seguendo il vento del desiderio che gonfia le vele. Avanti, verso il proprio oggetto d’amore, verso un Dio che viene non dal passato, ma dall’avvenire. Sull’albero, in alto, come per leggere se stesso e tutto ciò che accade da un punto di vista più alto. Perché il quotidiano è abitato da un oltre.
«Devo» dice Gesù, devo fare casa con te per un intimo bisogno: a Dio manca qualcosa, manca Zaccheo, manca l’ultima pecora, manco io. Se Gesù avesse detto: «Zaccheo, ti conosco bene, se restituisci ciò che hai rubato
Gesù passando alzò lo sguardo. Lo sguardo di Gesù è il solo che non si posa mai per prima cosa sui peccati di una persona, ma sempre sulla sua povertà, su ciò che ancora manca ad una vita piena. La sua parola è la sola che non porta ingiunzioni, ma interpella la parte migliore di ciascuno, che nessun peccato arriverà mai a cancellare. Zaccheo cerca di vedere Gesù e scopre che Gesù cerca di vedere lui. Il cercatore si accorge di essere cercato, l’amante scopre di essere amato, ed è subito festa: Zaccheo, scendi, oggi devo fermarmi a casa tua.
«Devo» dice Gesù, devo fare casa con te per un intimo bisogno: a Dio manca qualcosa, manca Zaccheo, manca l’ultima pecora, manco io. Se Gesù avesse detto: «Zaccheo, ti conosco bene, se restituisci ciò che hai rubato verrò a casa tua», Zaccheo sarebbe rimasto sull’albero. Se gli avesse detto: «Zaccheo scendi e andiamo insieme in sinagoga», non sarebbe successo nulla. Il pubblicano di Gerico prima incontra, poi si converte: incontrare uno come Gesù fa credere nell’uomo; incontrare un uomo così rende liberi; incontrare questo sguardo che ti rivela a te stesso fa nascere.
Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Sono poche parole: fretta, accogliere, gioia, ma che dicono sulla conversione più di tanti trattati. Apro la casa del cuore a Dio e la gioia e la vita si rimettono in moto.
Infatti la casa di Zaccheo si riempie di amici, lui si libera dalle cose: «Metà di tutto è per i poveri e se ho rubato…». Ora può abbracciare tutta intera la sua vita, difetti e generosità, e coprire il male di bene…
Oggi mi fermo a casa tua. Dio viene ancora alla mia tavola, intimo come una persona cara, un Dio alla portata di tutti. Ognuno ha una dimora da offrire a Dio. E il passaggio del Signore lascerà un segno inconfondibile: un senso di pienezza e poi il superamento di sé, uno sconfinare nella gioia e nella condivisione
Rubrica Religiosa a cura di monsignor Alfredo Adornato
di Alfredo Adornato
Il pubblicano e quel «tu» che salva
XXX Domenica
Tempo ordinario – Anno C
(…) «Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo» (…).
Gesù, rivolgendosi a chi si sente a posto e disprezza gli altri, mostra che non si può pregare e disprezzare, adorare Dio e umiliare i suoi figli, come fa il fariseo. Pregare può diventare in questo caso perfino pericoloso: puoi tornare a casa tua con un peccato in più.
Eppure il fariseo inizia la preghiera con le parole giuste: O Dio, ti ringrazio. Ma tutto ciò che segue è sbagliato: ti ringrazio di non essere come gli altri, ladri, ingiusti, adulteri. La sua preghiera non è un cuore a cuore con Dio, è un confronto e un giudizio sugli altri, tutti disonesti e immorali. L’unico che si salva è lui stesso. Come deve stare male il fariseo in un mondo così malato, dove è il male che trionfa dappertutto! Il fariseo: un buon esecutore di precetti, onesto ma infelice.
Io digiuno, io pago le decime, io non sono… Il fariseo è irretito da una parola che non cessa di ripetere: io, io, io. È un Narciso allo specchio, per il quale Dio non serve a niente se non a registrare le sue performances, è solo una muta superficie su cui far rimbalzare la sua soddisfazione.
Il fariseo non ha più nulla da ricevere, nulla da imparare: conosce il bene e il male e il male sono gli altri. Ha dimenticato la parola più importante del mondo: tu.
Il pubblicano invece dal fondo del tempio non osava neppure alzare gli occhi, si batteva il petto e diceva: Abbi pietà di me peccatore. Due parole cambiano tutto nella sua preghiera, rendendola autentica.
La prima parola è tu: Tu abbi pietà. Mentre il fariseo costruisce la sua religione attorno a quello che lui fa, il pubblicano la fonda su quello che Dio fa. L’insegnamento della parabola è chiaro: la relazione con Dio non segue logiche diverse dalle relazioni umane. Le regole sono semplici e valgono per tutti. Se metti al centro l’io, nessuna relazione funziona. Non nella coppia, non con gli amici, non con Dio. Vita e preghiera percorrono la stessa strada: la ricerca mai arresa di un tu, uomo o Dio, in cui riconoscersi, amati e amabili, capaci di incontro vero, quello che fa fiorire il nostro essere.
La seconda parola è: peccatore. In essa è riassunto un intero discorso: “sono un poco di buono, è vero, ma così non sto bene, non sono contento; vorrei tanto essere diverso, ci provo, ma ancora non ce la faccio; e allora tu perdona e aiuta”.
Il pubblicano tornò a casa sua giustificato, non perché più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l’umiltà), ma perché si apre – come una porta che si socchiude al sole, come una vela che si inarca al vento – a un Altro più grande del suo peccato, che viene e trasforma. Si apre alla misericordia, a questa straordinaria debolezza di Dio che è la sua sola onnipotenza.
Lipari, monsignor Gaetano Sardella (rappresentato da Tindaro Fonti) presidente del comitato per i festeggiamenti di San Bartolomeo: 16 novembre – 5 marzo
Nella parrocchia di San Pietro, sotto la presidenza del parroco Mons. Gaetano Sardella, si costituisce il comitato per i festeggiamenti del 16 Novembre e del 5 Marzo in onore di San Bartolomeo. Presidente: Il parroco rappresentato da Fonti Tindaro che ha la delega di firma anche legale. Cassiere: Zaia Tindaro e Favaloro Gaetano. Segretario: Fonti Maurizio. Consiglieri: Marturano Giuseppe e Ziino Francesco. Il presente comitato sostituisce i precedenti. Quanti vogliono far parte di questo comitato, possono farne parte.
Lipari, da oggi al via gli incontri di catechesi
Lipari – Domani venerdì 11ottobre alle ore 18.30 nella Chiesa di San Pietro avranno inizio gli incontri mensili di catechesi per adulti. Il primo incontro sarà su “L’ insegnamento di Papa Francesco” e sarà introdotto da una riflessione del dott. Michele Giacomantonio. Si parlerà della spiritualità ( il misticismo, il dialogo, il discernimento, la frontiera ), della visione della Chiesa ( un ” ospedale da campo “, la sinodalita’ , il ruolo della donna…), dell’uomo (divorzio, aborto, omosessualità ) e della storia ( povertà , guerre,
immigrazione…) di Papa Bergoglio attraverso soprattutto le interviste a Civiltà Cattolica e a Repubblica e gli interventi a Lampedusa ed Assisi.
Rubrica Religiosa a cura di monsignor Alfredo Adornato
di Alfredo Adornato
La fede, un «niente» che può «tutto». XXVII Domenica. Tempo ordinario – Anno C.
In quel tempo, gli Apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
Gesù ha appena avanzato la sua proposta “unica misura del perdono è perdonare senza misura”, che agli Apostoli appare un obiettivo inarrivabile, al di là delle loro forze, e sgorga spontanea la richiesta: accresci in noi la fede. Da soli non ce la faremo mai. Gesù però non esaudisce la richiesta, perché non tocca a Dio aggiungere, accrescere, aumentare la fede, non può farlo: essa è la libera risposta dell’uomo al corteggiamento di Dio.
Gesù cambia la prospettiva da cui guardare la fede, introducendo come unità di misura il granello di senape, proverbialmente il più piccolo di tutti i semi: non si tratta di quantità, ma di qualità della fede. Fede come granello, come briciola; non quella sicura e spavalda ma quella che, nella sua fragilità, ha ancora più bisogno di Lui, che per la propria piccolezza ha ancora più fiducia nella sua forza.
Allora ne basta un granello, poca, anzi meno di poca, per ottenere risultati impensabili. La fede è un niente che è tutto. Leggera e forte. Ha la forza di sradicare alberi e la leggerezza di farli volare sul mare: se aveste fede come un granello di senape, potrete dire a questo gelso sradicati..
Segue poi una piccola parabola sul rapporto tra padrone e servo, che inizia come una fotografia della realtà: Chi di voi, se ha un servo ad arare, gli dirà, quando rientra: Vieni e mettiti a tavola? E che termina con una proposta spiazzante, nello stile tipico del Signore: Quando avete fatto tutto dite: siamo servi inutili. Capiamo bene: servo inutile significa non determinante, non decisivo; indica che la forza che fa crescere il seme non appartiene al seminatore; che la forza che converte non sta nel predicatore, ma nella Parola. «Noi siamo i flauti, ma il soffio è tuo, Signore» (Rumi).
Allora capisco che chiedere «accresci la mia fede» significa domandare che questa forza vivificante entri come linfa nelle vene del cuore.
Servo inutile è colui che, in una società che pensa solo all’utile, scommette sulla gratuità, senza cercare il proprio vantaggio, senza vantare meriti. La sua gioia è servire la vita, custodendo con tenerezza coloro che gli sono affidati. Mai nel Vangelo è detto inutile il servizio, anzi esso è il nome nuovo, il nome segreto della civiltà. È il nome dell’opera compiuta da Gesù, venuto per servire, non per essere servito. Come lui anch’io sarò servo, perché questo è l’unico modo per creare una storia diversa, che umanizza, che libera, che pianta alberi di vita nel deserto e nel mare.<span style=”font-size: 10.5pt; font-family: Arial;