CENTRO STUDI, PRESENTATO IL VOLUME “LA STORIA DELLA POMICE DI LIPARI”

1097399062.JPGLa pomice è Lipari e un liparoto, Pino La Greca, ne sta scrivendo la sua storia. Così al 2080952998.JPGCentro Studi è stato presentato il secondo volume di questa millenario materiale attorno al quale si sono sviluppate storie e liti. A presentare il libro i giornalisti Giancarlo Felice e Nino Rizzo Nervo. Poi gli interventi del sen. Nino Randazzo, di Enzo D’Ambra e di Pietro Lo Cascio.

Riportiamo i passi salienti dell’intervento d’apertura del collega Giancarlo Felice il quale ha tratteggiato i contenuti del secondo volume di Pino La Greca.  

                                   
        
E’ con estremo piacere che ho accolto l’invito del Centro Studi per presentare il secondo volume dell’amico Pino La Greca che ha voluto e continua a cimentarsi, con la sua opera omnia, nella  ricostruzione della storia dell’estrazione di un materiale che ha reso Lipari e le Eolie ancor più note nel mondo.

Oggi è stata edita la seconda “fatica” di Pino dal titolo : “Dalla controversia con il vescovo Natoli all’avvio della legge sulla pomice”. Altri volumi saranno pubblicati nel corso degli anni per completare, appunto, quella che ho definito “opera omnia”.

Ma prima di entrare nel vivo di questo libro, è necessario indicare che Pino La Greca nel primo volume ha ripercorso la storia millenaria delle attività minerarie eoliane con l’Ossidiana, l’Allume e lo zolfo a Vulcano per poi passare dagli albori al Sovrano Rescritto del 1855; alla curiosità della cupola del Pantheon, nella quale i romani usarono la pomice per rendere più leggera la volta non poggiante su alcun pilastro centrale; al Medioevo, agli Arabi, al 1200. Poi una piccola esplorazione del ‘ 600 e del ‘700, per giungere al primo ‘800 con i primi tentativi di concessioni monopolistiche, all’emissione del Sovrano Rescritto del 24 giugno 1855 e alle condizioni sul dazio della pietra pomice del 1859.

Un capitolo specifico lo ha dedicato alle concessioni monopolistiche (1861-1894) con i regolamenti per lo sfruttamento dei demani pomiciferi, la riscossione del dazio, il tentativo della Banca siciliana di Messina, la concessione Barthe e la concessione Eolia, il tentativo di concessione dei sigg. Schouffos, Navone e Catania. Infine, un approfondimento sulla società Eolia, la nascita dei primi contrasti, le sentenze e il fallimento della Eolia, lo svincolo della cauzione.

Oggi Pino La Greca analizza un periodo molto contenuto nel tempo, ma pieno di avvenimenti. Venti anni (dal 1880 al 1900) che hanno caratterizzato la fine del XIX° secolo.

E parte con gli usi civici. Che sono i diritti della popolazione residente in un determinato territorio (nel nostro caso il territorio comunale). Tali diritti consistono nel far legna (legnatico), prelevare l’acqua (acquatico), far pascolare gli animali (erbatico o ghiandatico), costruire ricoveri, far la calce, raccogliere funghi e altri prodotti del bosco, ecc. e nel caso di Lipari cavar pomice. Mentre gli altri usi civici comportano il “mantenimento economico” del bene, nel caso della pomice il valore economico dei fondi si riduce progressivamente con l’attività di estrazione.

 

Questi diritti derivano dall’ordinamento feudale. Ma, nel 1806, il Regno di Napoli era passato dai Borboni a Giuseppe Bonaparte; questi, nello spirito della Rivoluzione Francese, abolì il sistema feudale per favorire la creazione di aziende agricole in proprietà privata.

 

Si stabilì un risarcimento per gli antichi baroni, mentre i terreni del feudo dovevano essere divisi prima in “massa” (attribuiti cioè ai diversi comuni, che allora si chiamavano Università) per poi essere ripartiti in “quote”, per la parte adatta alla coltivazione, tra i cittadini residenti nel Comune che svolgessero attività agricola.

 

Ed allora nascono, e La Greca le analizza, Le appropriazioni delle zone demaniali e gli sconfinamenti nelle zone demaniali, con relative controversie, liti, cause, sedute e deliberazioni dei vari Consigli comunale succedutisi negli anni.

Ma come sempre accade, la litigiosità è sempre dietro l’angolo. Poi a Lipari sembra essere una regola, allora come ora. Ognuno vuol far valere quelli che considera i propri diritti ed ecco che esplode la controversia con la Chiesa liparota, nella fattispecie con il vescovo Natoli.

Alla deliberazione del Consiglio comunale di dare in concessione le cave di pomice alla “L’Eolia” si oppose il vescovo Giampietro Natoli, il quale, per mezzo del proprio legale, l’avv. Antonino Natoli La Rosa , suo fratello, sostenne che tutti i terreni pomiciferi erano di proprietà della Mensa Vescovile, per concessione normanna. Sosteneva il vescovo che la concessione normanna era anche di carattere allodiale. Questa tesi fu respinta dal commissario per gli affari demaniali, con una ordinanza del 19.6.1891. Le rivendicazioni del Vescovo possono dividersi in due momenti: la rivendica delle terre pomicifere e il pagamento delle decime, fra loro strettamente legati.

        Il Vescovo era dell’opinione che l’Amministrazione comunale, sin dal 1890 si era inventata “gratuitamente” l’esistenza di un demanio comunale in numerose contrade di Lipari. Sulla scorta della pianta topografica predisposta si era avviata la reintegra con forme di esecuzione forzata, parecchie delle quali “erano state già concesse ad enfiteusi dalla Menza Vescovile di Lipari.” Da quel momento, gli utilisti enfiteuti espulsi, si erano rifiutati di pagare il Censo alla Mensa Vescovile. Anzi, di contro, alcuni di questi “utilisti evitti, per ottenere il proprio quieto lor vivere, passarono a riconoscere qual proprietario primitivo il Municipio di Lipari.” Molti altri, invece, citarono nel corso del 1894 il Municipio di Lipari chiedendo il rilascio dei fondi, e minacciavano di trascinare in giudizio anche la Mensa Vescovile. Per evitare la citazione in giudizio della Mensa, l’avvocato Natoli La Rosa, aveva assunto gratuitamente la difesa degli “utilisti evitti” contro il Municipio. 

         All’indomani dell’Ordinanza del 1891 del Commissario per gli affari demaniali, il Vescovo dal luglio 1892, con avviso a stampa, collocato presso le varie Curie della Diocesi, invitava al bonario pagamento, le migliaia di debitori del Censo fisso, i quali, a suo parere, erano tenuti al pagamento delle decime.

        Naturalmente la quasi totalità dei debitori negò il pagamento bonario sia del canone fisso che del censo decimale come se questo non fosse affatto dovuto al vescovo.”.

 

Il vescovo, quindi, lamentava l’assoluta mancanza di risorse e l’inutilità di proseguire sulla strada del componimento bonario. L’iniziativa creò una forte animosità nel Paese che culminò in una presa di pozione politica del Consiglio Comunale di Lipari contro il Vescovo Natoli (del quale ne fu addirittura chiesto l’allontanamento) ed il fratello avvocato.

Per sommi capi questa la vicenda. Ulteriori approfondimenti documentali, davvero notevoli, li lascio alla vostra lettura.

Alla fine del XIX° secolo si comincia poi a sentire l’esigenza di creare un regolamento e una normativa che regolamentasse l’estrazione e la commercializzazione della pietra pomice. Si pensò ad un disegno di legge, il quale dovrà attendere quasi sette anni per diventare una legge.

All’indomani dello scioglimento del contratto con “L’Eolia” per l’amministrazione comunale iniziarono i problemi per assicurarsi i proventi del commercio della pietra pomice. Basti esaminare le delibere che riguardano le approvazioni di alcuni bilancio preventivi, quello del 1893 e quello del 1895 e la situazione economica diventa drammatica per le casse comunali, anche per la comparsa della Fillossera.

L’anno 1893 si apre con una seduta del consiglio comunale dedicata al godimento dei demani comunali e ad un nuovo regolamento. Il Sindaco in apertura di seduta comunicò che la Corte d’Appello di Messina con sentenza pubblica del 29 dicembre 1892, aveva dichiarato risolto il contratto con “L’Eolia” e che, quindi, il Comune era rientrano nel possesso dei propri demani per cui il Consiglio era chiamato a deliberare sulla destinazione da dare ai demani comunali, per assicurare al Comune il diritto di percezione, a discutere e deliberare il nuovo regolamento predisposto dalla Giunta. Cosa che fu fatta. Il fallimento della “Eolie” fu rilevato dalla famiglia D’Ambra che fino a qualche mese fa ha condotto questo “affaire”.

Intanto cade il governo borbonico, ma il Comune continuò a percepire il dazio stabilito con il Sovrano Rescritto del 1855, che venne nel tempo regolamentato, meglio disciplinato ed accresciuto, con diverse deliberazioni comunali, sempre approvate dalle autorità tutorie. Il 9 dicembre 1884 il Consiglio Comunale elevava a 2 lire il quintale il dazio su tutta la pomice, di qualunque qualità senza differenza.

Occorre dire che le risorse provenienti dall’escavazione della pomice rappresentavano oltre il 50% delle entrare comunali e la carenza delle stesse certamente si rifletteva in maniera drammatica sulla condizioni finanziarie dell’ente. E’ probabile, quindi, che la popolazione chiese, con insistenza, il ripristino del rescritto borbonico.

 

            Allora come oggi, oggi come allora, non poteva mancare il giallo amministrativo. Tanto che il 17 aprile 1899 il consiglio comunale affrontò una lunghissima seduta per analizzare una relazione-inchiesta sulla gestione del diritto di percezione sulla pietra pomice. L’indagine prese avvio a seguito di una denuncia presentata dal direttore delle Guardie campestri che aveva rilevato delle irregolarità sulla gestione economica del diritto di percezione sulla pietra pomice negli anni 1893 e 1894

Già nel corso del 1897, alcuni consiglieri comunali avevano segnalato e denunciato irregolarità nella gestione di tale servizio. Il 1° febbraio il consiglio comunale discute ed approva il bilancio di previsione del 1897, all’art. 3 viene discusso il “prodotto delle cave pomicifere”. Nel corso della seduta prese la parola il consigliere Giuseppe Faraci che “sostiene che la previsione di lire 30.000 possa essere suscettibile di aumento, giuste le risultanze del 1896. Egli dice che il sistema tenuto per la sorveglianza del servizio della pomice, non è come dovrebbe essere. Tutto e lasciato a beneplacito delle guardie e del direttore, ciò che è deplorevole nell’interesse del comune. I bollettari per l’accertamento della pomice scavata sono senza controllo. In altri termini bisogna dare un bollettario con visto del direttore e con un bollo di controllo. Ritiene che tenendo meglio l’amministrazione, si può più ricavare da tale cespite, e quindi prevedere un’entrata anche di lire 36.000. Egli ha dovuto constatare che delle frodi si sono commesse a danno del Comune.”  

 

Nella parte conclusiva della sua seconda fatica Pino La Greca analizza la parte sociale, un settore a lui molto caro.

La prima testimonianza diretta sulle condizioni economiche e sociali dei lavoratori della pomice, riscontrabili a Lipari, sono contenute nelle condizioni stabilite per la concessione dei demani sin dal 1881. Un articolo specifico era rivolto al mondo del lavoro. La lettura dello stesso ci dà uno spaccato dell’attività lavorativa.

 

Ai lavoratori, individuati come “naturali dell’isola” era riconosciuta, anche in presenza del Concessionario, la possibilità di poter far uso di alcune delle qualità di pomice che si estraevano dalla cave per l’esclusivo uso interno (realizzazione di fabbricati a Lipari), con preventiva autorizzazione da parte del Comune di Lipari.

 

Con il contratto il concessionario si obbligava ad ammettere allo scavo della pietra pomice tutti i naturali, previo permesso scritto (che non poteva essere negato). Gli operai, di contro, dovevano cedere al concessionario tutto il materiale cavato secondo gli usi e le consuetudini locali, e con i prezzi stabiliti nel capitolato.

Alla lavorazione della pietra pomice dovevano essere ammessi soltanto lavoranti ed operai del Comune di Lipari con l’esclusione di ogni macchinario. Unica eccezione: lo sciopero, in questi casi, e nei casi in cui la produzione era al di sotto della quantità ritenuta minima dal concessionario, potevano essere utilizzati sia le macchine che operaio esterni al territorio comunale.

Nel 1886, appena due anni prima, del contratto stipulato dal Comune di Lipari con L’Eolia, il governo nazionale, nonostante una feroce resistenza degli industriali aveva approvato una legge che vietava di impiegare nelle fabbriche fanciulli di età inferiore ai 9 anni. La legge, seppure con forte ritardo rispetto a paesi più avanzati come l’Inghilterra, poneva fine allo sfruttamento della manodopera infantile: bambini dai 5 ai 7 anni lavoravano fino a 13-15 ore al giorno!

            Non si conoscono gli orari di lavoro dei “naturali di Lipari” impegnati nell’attività di estrazione della pomice, né le diverse classi di età impegnate, ma si ritiene che le condizioni non fossero diverse. Dalla lettura dei diversi contratti di concessione si apprende che gli operai lavoravano in piccole squadre, quasi sempre a carattere familiare, senza una organizzazione precisa, sottoposti a qualsiasi tipo di rischio, senza alcuna garanzia di un reddito anche minimo.

E attraverso una delibera del 1899 si potrà comprendere come i rischi legati ai lavori in galleria erano tanti e in molti casi mortali ( si parla in totale di un centinaio di morti). Ma cosa succedeva alle famiglie? quali risorse avevano per sopravvivere alla perdita dell’unico produttore di reddito del nucleo familiare?

        Ecco un passaggio resocontistico di un consiglio comunale riguardante la supplica della signora Antonia Portelli per il condono del pagamento del diritto di percezione sulla Pomice.

“E’ troppo recente l’immane sventura toccata alla supplicante, perché non occorra di ricordarla a questo onorevole consiglio comunale. La vedova, che ora ricorre alla pietà di questa rappresentanza, era la moglie di Portelli Giovanni di Nicolò Antonino, escavatore di pomice, ed oggi, dopo che l’abisso inghiottì tanto immaturamente il suo povero consorte, dopo quest’altra vittima del sudato lavoro, essa è rimasta sola a piangere e pregare sul capo del suoi quattro orfanelli, di cui il quarto porta ancora in seno, ed il secondo è cretino.

 

Resto sola ed afflitta, ed anche povera, e dovrà sopperire agli imprescindibili bisogni della sua famiglia, al pane dei suoi figliuoli. Nulla tenente com’è essa sentiva ancora più amaramente il disastro del quale è stata colpita; ed è in  tanto lutto che ella si augura di non ricorrere invano a questo on.le consenso, al quale chiede solamente il condono di quelle lire 137,73 che il disgraziato suo marito dovea al Comune per diritto di percezione sull’escavazione di pietra pomice, cioè per i mesi di novembre e  dicembre 1898 lire 37,73 e da gennaio fino al 21 marzo 1899 lire 100.

 

Questa sventurata che in nessun caso potrebbe pagare il debito del povero morto, benedirà la santa opera del consiglio comunale ed instillerà nel cuore dei suoi orfanelli quella riconoscenza di cui esso certamente vorrà rendersi meritevole”.  Lipari, 28 marzo 1899.

 

         Il consiglio naturalmente approvò la domanda all’unanimità. La somma fu trasferita tra le quote inesigibili.

 

            La Greca poi si sofferma sull’attività estrattiva. Dalla coltivazione in galleria della pomice ai vari tipi e qualità della stessa, alla tecnologia dell’epoca, alle condizioni sul dazio, alla commercializzazione che si aggirava tra le 3.500 e 5.000 tonnellate annue.

            Come avrete modo di leggere, si è trattato di un lavoro certosino, alla ricerca e al recupero di documentazione. Ma penso che La Greca riserverà altre novità e sorprese nel prossimo volume, il terzo, che arricchirà questa interessante collana voluta dal Centro Studi”.

           

CENTRO STUDI, PRESENTATO IL VOLUME “LA STORIA DELLA POMICE DI LIPARI”ultima modifica: 2008-08-21T09:30:46+02:00da leonedilipari
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