Da Santa Marina Salina in linea Teodoro Cataffo

teodoro cataffo.pngdi Teodoro Cataffo
Pubblicazione di “Casa al mare” Le Favole-Mar Vasia-2002-dedicato a Carlo Haunner senior.

L’uomo della terra aveva gli occhi di mare ed i capelli di sole. Chissà da dove veniva. A sentire lui era di avi sassoni e di gioventù sudamericana. Ma aveva il gusto mediterraneo. Le sue radici che affondarono su questa nostra terra, dopo anni spesi per la conoscenza e l’innamoramento, fecero germogliare tralci di viti e maturare grappoli d’uva. I tramonti e le aurore che dipingeva, prima che con il pennello, con le parole, avevano ed hanno le tinte forti del nostro cielo, del nostro mare, del nostro sole e della nostra luna.

 
Quando decise di andarsene furono pochi ad accompagnarlo nel viaggio che lo portò definitivamente dentro la terra che tanto aveva amato. Molto spesso parliamo di lui e di tutte le volte che veniva a trovarci e ci piace ricordare le tante storie che ci raccontava, mentre noi, ammirando la sua capacità nel trovare soluzioni fantastiche ad ogni perché, stentavamo a credergli, allora, completamente. Preferiva quasi sempre parlare della malvasia e di come fosse arrivata da noi: molti e molti anni fa un vecchio contadino abitava in un capanno dentro una piccola vallata degradante a picco sul mare. Egli viveva di ciò che produceva il suo podere: ortaggi, agrumi, frutta, grano, olio, vino…Ogni giorno usciva da casa presto al mattino quando era ancora buio e rientrava quando già era scesa la sera.
 
A volte mentre era seduto a riposare guardava giù verso il mare e se vedeva in lontananza un piroscafo pensava a terre lontane, di cui aveva sentito parlare, dove non era certo di voler andare, ma che amava sognare. La sera se non aveva sonno, per non sentirsi solo, leggeva dei vecchi libri trovati in una casa abbandonata vicino alla sua terra. Un giorno tra questi ne trovò uno che così portava scritto: c’era e viveva nell’antichità più remota una strega. Il suo nome era Vasìa, che nel greco arcaico, pare volesse dire “dolcezza”. Ella era venuta dal mare, non aveva dimora e vagava come una zingara di paese in paese, di casa in casa, offrendo i suoi servizi e chiedendo solo da mangiare. Non era una strega cattiva, anzi era buona ed era anche molto bella. Tutti quelli che avevano qualche problema di salute, di cuore, di lavoro, qualche malocchio nella casa, nella barca, nel campo, si rivolgevano a lei. Era molto brava Vasìa. Li faceva sedere su una sedia e poi, preso un piatto fondo e riempitolo per metà di acqua, lo poggiava sulla testa della persona posseduta e cominciava a recitare una giaculatoria che le aveva insegnato sua madre prima di morire in una notte di tempesta di tanti anni addietro.
 
Ementre recitava tracciava nel piatto degli strani segni a croce e a cerchio, a triangolo e a rettangolo e poi ancora a croce e a cerchi e continuava a bisbigliare le sue orazioni tanto piano e tanto velocemente che era impossibile sentire ciò che diceva. Poi, bagnate le dita nell’olio contenuto in una anforetta a muso largo, ne faceva cadere alcune gocce nell’acqua. A questo punto tutti quelli attorno, tranne il posseduto, capivano che c’era il malocchio. Vasìa cominciava a scuotere la testa, diventava rossa in viso ed alzati gli occhi al cielo correva fuori col piatto per buttare lontano l’acqua col malocchio. Ripeteva l’operazione per tre volte ed a volte per tre giorni quando il malocchio era forte e duro ad andar via.
 
Essa era capace di fare anche magie più grandi: togliere i vermi ai bambini aspirandoli attraverso l’ombelico, guarire i tremendi dolori di stomaco ponendovi sopra le sua calde mani e poi penetrandovi fino ad accarezzare l’organo dolorante; faceva dimenticare le amarezze e le sofferenze solo massaggiando dietro i lobi delle orecchie, ed una volta aveva anche liberato un ragazzo da un demone che lo stava portando alla pazzia praticandogli in gran segreto un sortilegio erotico che quello mai più poté dimenticare. Questi rituali erano per Vasìa un grande dispendio di energie.
 
Perciò ella per trarre forza si recava, di tanto in tanto, nella valle del lupo. Si chiamava così non perché a quei tempi ci fossero i lupi bensì perché il posto era tanto impervio e solitario che la gente per evitarlo diceva che lì non ci sarebbero andati manco i lupi. Vasìa sceglieva il giorno: doveva essere brutto, il mare doveva essere terribile, il cielo nero come la pece, senza sole né luna. Essa si spogliava nuda in tutta la sua bellezza e raggiunta la rupe più alta proiettata a picco sul mare, apriva le braccia e le gambe ed alzava al cielo lo sguardo. Ed allora il mare ed i fulmini, il vento e la pioggia, la grandine ed i tuoni, come amanti che da tanto tempo l’aspettavano all’appuntamento, si scatenavano ancora di più. Il mare alzava i suoi spruzzi così alti da coprirla tutta come in un abbraccio di bianca spuma, il vento diveniva talmente forte da
arruffarle i peli del pube e delle ascelle e da alzare in alto, molto in alto i suoi lunghissimi capelli corvini, i fulmini le passavano accanto saettanti e improvvisi come frustate che sanguinavano sulla
pelle candida, mentre i tuoni le riempivano le orecchie e la testa; per ultimo la pioggia e la grandine la bagnavano e la colpivano dalla testa ai piedi così violentemente da farla gridare. La notte l’avvolgeva infine ed ella, prostrata, giaceva ore ed ore piangendo come se un terribile amante l’avesse abbandonata dopo averle dato orgasmi su orgasmi.
 
La fama di Vasìa non si sarebbe sparsa fuori dall’isola percorrendo di bocca in bocca, di gesto in gesto, di libro in libro tutto il mondo se dopo tanti e tanti anni quel contadino che viveva in un capanno dentro una piccola vallata degradante a picco sul mare non avesse letto quel vecchio libro e non avesse vissuto quella terribile avventura a causa della quale fu costretto a ripetere la formula segreta per richiamare in vita Vasìa e la sua magia:…era un mattino come tanti altri quando il contadino uscì fuori dal capanno per andare nell’orto. Si accorse subito che nell’aria c’era una strana atmosfera di elettricità.
 
I corvi numerosissimi stavano sorvolando il campo e gracchiavano. Egli si sentiva turbato. Laggiù, lontano stava succedendo qualcosa. Le nuvole tutte in fila da un lato all’altro dell’orizzonte si allungavano verso il mare fino ad assumere la forma di imbuto, di trombe. Erano tantissime, una accanto all’altra e piano piano, ma inesorabilmente, si avvicinavano tra loro.
Ora era possibile vedere i mulinelli di acqua marina risucchiata dalle trombe che così diventavano più grosse, sempre più grosse. Il contadino si accorse che erano dirette sull’isola, anzi a lui parve che fossero dirette proprio nella sua piccola vallata. Faceva come un pazzo, correva da un albero all’altro, da un melograno ad un pesco, da un limone ad un arancio, da un ulivo ad un nespolo, e li toccava nei rami e nei tronchi. Gli sembravano forti, forse in condizione di resistere. Ma ciò che lo preoccupava era il vigneto. Le viti erano nuove, messe giù da pochi anni, i tralci avevano da poco germogliato e qualche piccolissimo grappolo faceva la sua prima apparizione.
 
Egli aveva lavorato tanto per quel vigneto, in esso aveva riposto le sue speranze. Ma i tronchi erano ancora troppo fragili. Intanto, le trombe marine erano vicine, tanto vicine che stavano fondendosi tra loro. Di lì a poco sarebbero diventate una sola grande tromba in grado di succhiare non solo il mare, ma anche la terra, la sua casa o addirittura tutta la sua isola. Cosa poteva fare lui ?Così piccolo e così vecchio. Il rumore del mare che saliva risucchiato al cielo cominciava a diventare forte e vicino. Una grande cappa nera si stava formando bassa e minacciosa su tutto il campo ed il vecchio gridava la sua rabbia e la sua disperazione. Era la fine. La sua fine, la fine del suo campo, delle sue care viti.
Ma all’improvviso ricordò. Nel libro che aveva letto c’era scritto che sarebbe stato possibile far rivivere la maga Vasìa per una volta e solo per una volta, se fosse stato necessario annullare un gravissimo maleficio. Ed allora corse nel capanno, prese il libro, cercò la pagina della formula segreta e con grande fede gridò: “Vasìa, Vasìa, salvami con la tua magia”…
Passarono solo pochi istanti e dalla parte dell’isola dove c’è la valle del lupo, un turbine di bianca luce accecante apparve improvviso. Più si avvicinava e più il contadino poteva distinguere dentro la luce la figura bellissima della maga. Il volto di lei era irraggiato e splendido, le labbra socchiuse e gli occhi sognanti esprimevano felicità. La felicità di essere tornata. I suoi lunghi capelli nero corvino danzavano sulle sue spalle esili ma forti, adagiandosi fin sopra le natiche bianche per poi risollevarsi e ricadere giù.
 
I suoi seni irti e rosei esprimevano tutta la sua femminilità, mentre il suo pube e le sue cosce tornite e nervose manifestavano la sua immensa carnalità. Tutto il suo corpo esprimeva ciò che il suo nome
significava: “Dolcezza”. Poi le sue lunghe mani si mossero facendo segni verso l’orizzonte lontano. Non ebbe il tempo il contadino di ammirarla perché Vasìa, come una trottola impazzita, prese a girare forte, sempre più forte, dentro la luce che l’avvolgeva, e un rumore come di tuono proveniva dalla sua bocca. Un vento freddo ed impetuoso passò sopra il campo tanto violentemente che il contadino, per non essere trascinato via, si sdraiò supino tra le vigne e vide. Vide sopra di lui passare la bocca della tromba marina e poi la striscia di nuvola che univa la bocca al resto e poi ancora la nuvola.
 
Seguì il percorso e capì che la maga stava risucchiando dentro di sé quel grave pericolo. Ci volle tanto tempo prima che Vasìa pulisse il cielo e l’orizzonte da tutte le trombe marine che erano diventate una sola, ma che ora, visto il pericolo di essere annullate si dividevano per cercare di scappare. Quando tutto finì Vasìa si era trasformata. Era diventata talmente grossa e piena d’acqua da coprire tutta la vallata. La
sua luce bianca e accecante aveva cambiato il colore della nuvola della tromba marina in un colore più chiaro e la sua dolcezza aveva cambiato il sapore salato dell’acqua di mare in gusto dolce. Quando capì che era ora di andare via, e via per sempre, Vasìa pianse.
 
Le sue lacrime, contenendo tutto di lei, la femminilità, la carnalità, la bontà, la setosità della sua pelle, la dolcezza della sua natura, si trasformarono in una neve dolce come lo zucchero. Il contadino ne assaggiò un po’ ed era felice perché tanta parte di quella neve andò a cadere sulla sua vigna e la coprì tutta delicatamente e dolcemente. Egli comprese che il vino che sarebbe venuto fuori da quella vigna non sarebbe stato un vino come tutti gli altri, ma qualcosa di più. Un nettare che avrebbe contenuto dentro di sé tutta la dolcezza della maga. Per questo il contadino decise che lo avrebbe chiamato “mar vasìa”, cercando di dire, così, che dal mare era venuta la dolcezza. Ogni volta che Carlo aveva concluso questa storia si era già finito di mangiare. Le bottiglie erano vuote.
 
Ed ogni volta era in quel preciso momento che egli ci confidava di aver incontrato la maga Vasìa, di aver avuto con lei un furibondo amplesso e di averla poi ritratta. Strano, ma non ricordava però che fine aveva fatto la tela nella quale l’aveva raffigurata. Forse s’era perduta, o forse l’aveva donata. Chissà! Quando decise di andarsene il mare era agitato, pioveva un po’, e forse in lontananza se si avesse avuto il coraggio di guardare l’orizzonte si sarebbe potuto vedere qualche tromba marina tentare un approccio. Ma solo quello. Perché, chissà mai, quando, ancora tornerà a piovere la dolce neve.
Da Santa Marina Salina in linea Teodoro Cataffoultima modifica: 2011-11-27T13:40:00+01:00da leonedilipari
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