Da Santa Marina Salina in linea Teodoro Cataffo

tcataffo.jpgdi Teodoro Cataffo

“Casa al mare”. CAPITOLO  4°. La Ficara. 1995.

“Vorrei comprare una strada nel centro di Nuova York…”. Ogni tanto la voce di quel cantante alto, magro, con i capelli lunghi, un po’ trasandato ma elegante, che cantando voleva comprarsi una strada nel centro di Nuova York, mi ritorna in mente. I miei erano gli anni spensierati prima del servizio militare e subito dopo il diploma. Ormai d’estate nemmeno i miei genitori venivano più a trascorrere le vacanze in questa casa. Gran parte della spiaggia aveva lasciato il posto all’attracco della nave e dalla parte di Pozzo d’Agnello la banchinetta dalla quale con papà si facevano i tuffi, era stata tolta.

Anche Salvatore non si immergeva più per prendere le conchiglie lucenti. Il paese si stava trasformando. La lunga, soffice e brucente sabbia nera, il juke box del chioschetto, la piazza della chiesetta, i piedi scalzi e veloci sulle pietre antiche del pennello, la scaletta per i meno audaci nei tuffi estivi, il grande orologio della chiesa grande e i suoi rintocchi, il suono delle campane all’Ave Maria, le corse all’acchiappatedda e i rifugi segreti e complici dell’ammucciatedda, tutto cominciava a lasciare il passo alla frenesia del nuovo e poco conosciuto benessere turistico. C’era tuttavia ancora nei primi imprenditori e pionieri del turismo un non so che di goliardico, di carnevalesco, di spettacolare. Come ubriachi per questa nuova festante presenza che portava per le strade e sulle spiagge nuova carne e nelle tasche nuovi insperati guadagni.

Era come se essi fossero i primi attori in una commedia che iniziava a luglio inoltrato e finiva dopo il ferragosto, alla quale assistevano solo i pochi turisti allora arrivati. Si poteva vedere Tom entrare in mare fino all’ombelico per prendere le cime di terra dei motoscafi per aggiudicare i clienti al proprio ristorante, Tobia travestirsi o vestirsi da pirata sentendosi quasi tale, Settimino andare in giro con una gonna di sacco e un po’ di gambe di fuori, Tanuzzo osservare con sorriso di compiacenza i clienti entrare e uscire dal suo albergo, mentre seduto sul marciapiede fumava una sigaretta dopo l’altra. Era lì in mostra sul suo piccolo palcoscenico.

La Ficara, cosiddetta perché al centro di tutto c’era un grande fico, era una discoteca. O meglio una casa vecchia quasi diroccata, imbiancata a calce alla meno peggio, un frigo per un po’ di bibite, qualche pozzetto di granita di limone, una pista rotonda posta sotto il fico che la copriva completamente, pavimentata con piccole e rettangolari mattonelle diversamente colorate. Di giro alla pista i tavolinetti rotondi a tre piedi color alluminio, poi tutto attorno i vigneti della scuola di avviamento agrario e il silenzio. Rotto solo dal canto delle cicale fino a che c’era un po’ di chiarore. E quando si spegnevano tutte le luci dopo quelle del giorno, l’orchestra suonava. Era il momento di provarci.

Andavamo là apposta per provarci, tre, quattro ragazzi. La ragazza che quella sera avevamo portato alla Ficara si alzava e seguiva il prescelto dalla sorte, quella volta io, al centro della pista. Per farci vedere dagli altri. Cominciavamo con lo shake per riscaldarci un po’ e rompere il ghiaccio gridandoci all’orecchio qualche minchiata tra il rullare della batteria e le note profonde e invadenti del basso. Poi bastava strizzare l’occhio al capobanda e come per incanto la prossima musica era un lento. Il momento fatidico. Bisognava cominciare subito l’azione per non rischiare di farsi gridare dietro dagli altri “leva, leva” che nel modo corrente voleva dire lascia stare non fa per te. C’erano due pezzi interi a disposizione oltre quello di attacco. Poi una vergognosa ritirata.

Il primo contatto cominciava stringendole le mani e poggiando la guancia su quella di lei. Se stava ferma si aspettava un pò e poi la si stringeva di più. Quasi sempre d’estate il contatto delle nostre mani con la pelle delle sue braccia e delle sue spalle era inevitabile. Quindi se la ragazza non si allontanava ci stava o forse non aveva capito. Le sembrava normale e senza scopo quello stringimento. Allora si passava alla fase successiva, la più delicata. In quel momento tutti erano su di giri. Ma sì, o la và o la spacca. E gli altri guardavano. Le mani dalle spalle scendevano giù lungo la schiena leggermente sudata. Immersi nel languore della musica, sbiascicando qualche ti amo all’orecchio, la ragazza veniva delicatamente attirata.

E dolcemente si faceva attirare. Così finalmente mentre aderivano l’uno all’altra, a quelli attorno non restava che guardare o andare via. Nel momento che li vede andar via la giovane capisce di aver, suo malgrado, scelto. Era fatta. Non c’era nessuna possibilità per gli altri. Moggi moggi, almeno per quella sera, erano già andati via. Eccoci soli finalmente. Che importava se fosse bionda o bruna, rossa o castana. Importava solo che fosse lì tra le mie braccia, sulla pista e poi, più tardi sulla spiaggia lì sotto. Era questa la tattica usata che non lasciava scampo alla ragazza di turno. Poteva scegliere tra uno di noi, ma non poteva non farlo.

Il giorno dopo era il più pericoloso per il conquistatore della notte prima. Bisogna consolidare quel rapporto che la sera prima aveva lasciato gli amici a secco. Ed oggi ci avrebbero riprovato senza alcun rispetto. Quindi al mattino con mezz’ora di anticipo all’appuntamento, ero lì, sotto casa, ad aspettarla. La barchetta era già stata preparata ed a furia di remate si arrivava ad una spiaggietta solitaria. Così nasceva l’amore dell’estate, di ogni estate, sempre diverso ma non per questo meno coinvolgente. E quando poi la nave partiva portandosela via, gli amici erano ancora lì a confortarti. Chissà se ci sarà un’ altra Ficara nelle nostre notti estive, con altri amori cullati dalla fremente voce di quello che voleva comprarsi una strada nel centro di Nuova York.

Da Santa Marina Salina in linea Teodoro Cataffoultima modifica: 2011-11-12T13:42:00+01:00da leonedilipari
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