Lipari, “Curzio Malaparte alla Eolie” il nuovo volume di Pino La Greca

gastella.jpgdi Gian Antonio Stella

«Al libro, alla falce ed al martello / la borghesia tiranna ci strappò. / Iferri ai polsi, a bordo di un battello / sull’isola lontan ci relegò…».

Curzio Malaparte non avrebbe mai potuto riconoscersi, in quel «Canto dei confinati» che spicca tra le più belle canzoni clandestine nate sotto il tallone fascista. Un po’ perché si riferiva in particolare ad Ustica, dove Antonio Gramsci avrebbe scritto per i suoi figlioletti quella meravigliosa favola ecologica che ruota intorno a un topolino che, per farsi perdonare da un bimbo malato cui ha rubato il latte, convince la montagna a dare le pietre al muratore e il muratore a riparare la fontana e la fontana a dare acqua e l’acqua a bagnare il prato e il prato a sfamare la capra col risultato che «il bambino ha tanto latte che si lava anche con il latte». Un po’ perché l’autore de «La pelle» finì a Lipari non perché comunista ma semmai perché, come spiega Giuseppe La Greca nel primo capitolo di questo libro, si considerava un fascista così perfettamente fascista da bacchettare i fascisti «ingrassati» dal potere come Italo Balbo. In una delle strofe di quella meravigliosa canzone, però, avrebbe sì potuto ritrovarsi. Quella in cui i confinati rivendicano, nel loro esilio solitario, la fierezza di non essersi piegati: «Ed or sereni siam sulla scogliera / saldi nell’almo, con la fronte altera». L’aveva già scritto, del resto, nella cella di Regina Coeli dove, dopo il primo sconforto («Le idee mi si spappolano in testa… Ese la prigione annullasse in me anche lo scrittore?») aveva confidato nero su bianco: «Non mi sono mai sentito libero come da quando sono entrato in prigione».

C’è da credergli: nel momento in cui tutti erano diventati fascisti e osannavano il Duce, quella condanna per «attività antifascista all’estero», se non avesse avuto in allegato un mucchio di problemi a partire dall’impossibilità di scrivere, non doveva poi dispiacergli troppo. In fondo era come se il regime gli avesse confermato la patente del cane sciolto. Patente alla quale teneva più che a qualunque altra cosa. Come avrebbe raccontato anni dopo il comunista e amico fraterno Davide Lajolo a Massimo Fini in uno splendido ritratto su l’«Europeo», Malaparte «non seguiva mai una moda: ci arrivava prima. Poi, quando si accorgeva che arrivavano anche gli altri, si metteva a predicare l’opposto perché era un bastian contrario». Nell’Italia indecisa sull’entrata in guerra non poteva essere che interventista (fino ad arruolarsi sedicenne nella Legione Garibaldina, inquadrata nella Legione straniera francese), nell’Italia liberale ammaccata di Giovanni Giolitti e di Luigi Facta non poteva che diventar fascista (anche se Piero Gobetti lo stimava tanto da pubblicargli «Italia Barbara»: «Pubblico il libro di un avversario ma riconosco in Curzio Suckert la migliore penna del fascismo»), nell’Italia fascistizzata non poteva che convertirsi antifascista, nell’Italia democristiana non poteva che essere comunista. Fino a convertirsi all’ultimo istante al cattolicesimo riponendo la sua anima nelle mani di padre Virginio Rotondi, un gesuita diventato famoso anni prima per una violenta invettiva in un cinegiornale della Incom contro l’ipotesi che il divorzio fosse inserito nella Costituzione: «Dichiariamo che il divorzio è un attentato contro Dio e contro la nazione!». Se la conversione meravigliò il mondo intero, sbalordì su tutti Enrico Falqui: «Malaparte era un ribelle autentico. Non si faceva mettere il basto da nessuno, diavoli o santi che fossero». Un giorno andò a trovarlo alla Sanatrix dov’era ricoverato: «Di fianco, sotto la finestra, su una lunga e stretta mensola di marmo, erano allineati tutti gli idoli religiosi del mondo, da Budda a Cristo. Lo guardai meravigliato. “Curzio, che vuoi dire?”. “Eh,  eh, chi m’aiuta m’aiuta”, ghignò lui. Eio: “Senti, Malaparte, lo dico per scaramanzia, ma se ti trovassi veramente di fronte a Lui, chiunque egli fosse, cosa faresti, come te la caveresti?” EMalaparte: “Farei quello che ho sempre fatto: protesterei». Certo, avrebbe confermato Lajolo infischiandosene dell’incoerenza, «l’uomo non è un robot. Malaparte in fondo ti fa capire che l’incasellamento, l’adagiarsi su schemi retorici, qualsiasi essi siano, è sempre sbagliato e che la vita va vissuta, ognuno ovviamente nei propri limiti, da primattore». Probabilmente, quel giorno in cui gli dissero che la sua destinazione era Lipari, tirò un sospiro di sollievo ricordando un reportage del grande Mino Maccari. Era stato lui stesso, quando era al timone della Stampa di Torino, dove era diventato direttore giovanissimo a 31 anni (persino Stalin a Mosca, avrebbe raccontato, l’aveva squadrato pensando «così giovane e direttore della Stampa!»), a mandare nel 1930 quel formidabile inviato speciale a farsi un giro tra i confinati. E dopo avere visitato Ponza, Maccari era appunto sbarcato con il piroscafo «Adele» nel porto di Lipari.

«L’Adele ha costeggiato il singolarissimo isolotto di Vulcano, sui cui dorsi scabrosi s’arrampicano, come enormi ramarri, vegetazioni selvagge», aveva scritto il giornalista con rara finezza letteraria, «Dai crateri colate lente di zolfo si stendono come sbavature di lumache, dal bagliori di verde smeraldo e dalle trasparenze d’oro pallido; intorno, quasi a formare una sempre rinnovantesi corona, le spirali del fumo alimentano piccole panciute nuvolette che mi fanno ricordare quelle degli shrapnells del tempo di guerra: ma tutto è silenzio, una pace sonnolenta sovrasta». «Poi, verso Lipari, come un fanciullo che invochi l’aiuto del padre. Vulcano stende un moncherino bruciato, dalle piaghe ancora aperte, dove alcune chiazze più chiare sembrano davvero carne nuova di ferita che si rimargini. (…) L’isola è (…) grande, con molte campagne e contrade, con varie industrie, con vari approdi; e il paese è una vera cittadina che raccoglie, essa sola, molte migliaia d’abitanti, e si stende comodamente fra la Marina Lunga e la spiaggia di Portinente. Entro le antiche mura, il castello e gli avanzi di bellissime chiese, che contengono opere d’arte, vegliano grigi e severi sul gregge ordinato di quartieri settecenteschi e ottocenteschi, le cui case sono ornate, quasi ad ogni finestra, di graziosi balconi colmi di piante e di fiori». Asuggestionare il grande giornalista, erano state in particolare le strade che («salvo quelle più grandi, dedicate come di consueto agli eroi del Risorgimento») erano «intitolate quasi tutte alle deità pagane; e ho potuto leggere, un po’ sorpreso “Vico Giove”, “Vico Venere”, “Via Marte”, “Vico Proserpina”, “Vico Fortuna”, “Vico Minotauro”, “Vico Urano”, “Vico Apollo”. Mi sembrava d’essere capitato in pieno Olimpo». C’erano in quel reportage annotazioni struggenti: «Nelle straducole appartate gironzolavano uomini montati su minuscoli asinelli, e li usano cavalcare proprio sopra la coda, in modo che questa sembra penzolare piuttosto dall’uomo che dalla bestia… » Va da sé che a un amante appassionato del gentil sesso qual era Malaparte dovettero essere di consolazione, tuttavia, altre annotazioni: «Ho visto donne piacentissime, e giovinette sufficientemente al corrente in fatto di moda e di portamento». Di più: «Nelle vie centrali c’è un certo sfoggio di eleganze maschili e femminili, il passeggio si prolunga fino a tarda ora». Dettaglio interessante, per uno come lui che amava alzarsi a metà mattinata preferendo tirare tardi la sera. Il confino, a differenza di quanto avrebbe detto molti anni dopo Silvio Berlusconi in una sventurata dichiarazione a Boris Johnson e Nicholas Farrell, del settimanale «The Spectator», non era affatto una «villeggiatura». Ese anche si trattava di una cosa ben diversa dalle prigionie nei lager nazisti o nei Gulag comunisti, come ha fatto notare Mario Cervi, si trattava comunque di una prigione. Con la consolazione del cielo meraviglioso, delle spiagge bagnate da acque blu cobalto, dei profumi intensi del mare, della menta, del mirto, del rosmarino, di una cucina dai mille sapori. Ma una prigione.

Dove i confinati, pur potendo contare su una «varietà di passeggiate alcune delle quali veramente deliziose», non solo non potevano uscire prima che il sole sorgesse o fosse tramontato, ma avevano il divieto di discutere di politica, di conservare somme di denaro in eccesso ai bisogni ordinari, di spedire o ricevere lettere e pacchi se non attraverso la censura della direzione della colonia o di andare in barca per diporto. Insomma, per quanto bella fosse Lipari si trattava di una colorata, bellissima, affascinante gabbia. Che lo stesso Maccari, da vecchia volpe qual era, riuscì a raccontare ai lettori (dopo aver incontrato uno ad uno tutti i prigionieri senza la premurosa sorveglianza della polizia) servendosi di una sottile ironia: «Per entrare nell’ambiente del confino di Lipari ho dovuto, ancora, come a Ponza, pur dolente di mostrarmi un poco sgarbato, sfuggire ad una fitta rete di gentilezze e di continue attenzioni, dovute questa volta soprattutto all’energico dinamico e volitivo Direttore della Colonia, il Cavalier Grasso, Commissario di P.S., siciliano, il quale voleva, con cortese pensiero, risparmiarmi  perfino la noia di avvicinare direttamente i confinati, e aveva cominciato con il presentarmeli egli stesso, chiamandomeli nel suo ufficio».

Senza dubbio, ammiccava il giornalista facendosi beffe della censura, «la cosa sarebbe stata molto comoda e spiccia, ma ormai io avevo dato alla mia visita un carattere diverso, e ho dovuto far intendere al commissario come non mi convenisse cambiar sistema». Fino all’ultima stilettata, di velenosa leggerezza: «D’altra parte, in sua presenza, poteva darsi anche il caso che qualche confinato alterasse la verità, esagerando i lati meno piacevoli e gli inconvenienti del confino, o tacendo per non far la figura del piaggiatore e dell’adulatore, le benemerenze dello stesso direttore». Sic… Come potevano, i custodi del regime, farsi prendere per i fondelli in quel modo? E forse fu anche per quel reportage che avevano descritto tanti confinati senza demonizzarli e anzi con qualche cenno di simpatia come verso Fortunato La Camera («”Lei può esser sicuro che il suo nome è tra quelli di coloro che noi comunisti manderemo al confino!”. Ci rechiamo, così cordialmente parlottando, verso il centro del paese…») che lo stesso Maccari sarebbe stato poi espulso dal partito e Malaparte mandato al confino. Troppo ironici, entrambi. Troppo insofferenti alla mordacchia.

Il licenziamento dalla Stampa, come avrebbe raccontato quello che forse fu il suo migliore amico, il giornalista Augusto Mazzetti, fu motivato con una scusa: «La Stampa aveva pubblicato fra i nomi degli intervenuti al tradizionale omaggio di Capodanno al sovrano anche quello del conte della Trinità, morto da vari mesi. Un banale errore. Agnelli colse la palla al balzo e chiese la testa del redattore-capo, che era Maccari. Malaparte difese Maccari e fu cacciato. Ricordo che allora la questura gli fece pesanti pressioni perché lasciasse Torino dove era considerato un indesiderato». In realtà, ricordava Mazzetti che Massimo Fini incontrò quando, anziano, trascorreva «le sue giornate scrivendo poesie scaramantiche sulla morte», Malaparte «s’era messo a dirigere la Stampa a modo suo, infischiandosene delle direttive di Agnelli e indirettamente, di quelle di Mussolini. Andò in Unione Sovietica, pubblicò articoli duramente critici sul confino, si oppose all’introduzione del sistema Bedaux (un sistema che consentiva un intensivo e disumano sfruttamento degli operai) alla Fiat. Insomma non rinunciò mai, come era suo costume, alla libertà e alla indipendenza di giudizio». Per questo, nei primi anni del dopoguerra, si era sentito offeso dall’ostilità di certi antifascisti militanti che di lui ricordavano solo gli iniziali entusiasmi fascisti dimenticando il suo licenziamento dalla «Stampa», la sua condanna al confino o ancora il divieto del Duce a pubblicare in Italia il libro «Technique du coup d’état» che già nel 1931, come avrebbe ricordato Maria Antonietta Mazzocchi che a dispetto delle proteste l’aveva voluto come collaboratore a «Vie Nuove», descriveva un Hitler simile a quello che sarebbe stato preso in giro nel film «Il grande dittatore» da Charlie Chaplin: «un austriaco paffutello, con il baffo poggiato come un nodo a farfalla sotto il naso. Il suo eroe è Giulio Cesare in costume tirolese».

Un’ostilità esagerata, perfino per tantissimi comunisti (dagli amici Pietro Secchia e David Lajolo allo stesso Palmiro Togliatti che dopo averlo incontrato lo definì «uno degli uomini più intelligenti mai conosciuti») e a maggior ragione per i critici riottosi agli schemini, come Giuseppe Scaraffia che nel suo «Gli ultimi dandies» ha scritto che Malaparte «sgusciò fra i totalitarismi del XX secolo facendosi scudo di una sfacciata, eccessiva eleganza». A tanta animosità reagì battagliando da par suo: «Chi può scagliare la prima pietra, in Italia? Nessuno, neppure Croce. E perché dovrei sentirmi più colpevole di tanti altri?» Dio sa quanto avesse ragione. Equanto avesse ragione Lajolo a dire che in realtà ciò che veniva rinfacciato a Malaparte era di avere «rifiutato con troppa arroganza certo comodo conformismo o certo conformismo dell’anticonformismo». O, se volete, prima il conformismo fascista poi quello antifascista.

Ci sono, nella sua biografia, due scene in qualche modo parallele. La prima è lo sbarco a Lipari: «Quando la barca si accostò al molo, venti braccia si protesero, agguantarono i remi che Valastro e i suoi rematori sollevavano in alto, e ad uno ad uno i passeggeri furono issati sul molo. Ultima, che sedeva a poppa, fu mia madre». La seconda è il suo ritorno in Italia dalla Cina dove aveva voluto a tutti i costi andare e dove aveva intervistato Mao. Ormai spossato da un cancro («lo stramaledetto», lo chiamava) aveva la bocca coperta da una mascherina e doveva farsi aiutare in tutto. Avrebbe scritto: «L’altra mattina, all’aeroporto di Pekino, quando ho cominciato a salire la ripida scaletta del turboreattore sovietico, messo a mia disposizione dal governo cinese per ricondurmi in Italia, la piccola folla di autorità, di giornalisti, di medici, di infermieri, di funzionari dell’aeroporto, di scrittori, di diplomatici, che era venuta a salutarmi (…) è ammutolita all’improvviso. Io non riuscivo a salire quei ripidi gradini e mi ero accasciato mezzo svenuto. Il comandante del turboreattore sovietico, un biondo russo dalle mani enormi, è sceso di corsa e mi ha sollevato quasi di peso, issandomi, gradino per gradino, verso la cabina dell’aereo. La folla, colpita dallo spettacolo penoso, taceva». «Giunto in cima alla scaletta con il fiato rotto (da più di tre mesi respiro con un solo polmone), mi sono fermato per riprendere forza. Ed è allora che mi sono accorto del silenzio della folla. Volevo dire qualcosa per salutare i miei amici, per ringraziare, e mi sono venute spontanee alle labbra tre parole cinesi, che ho pronunciato lentamente, con grande fatica: “Uò ai zungkojen”, che vuoi dire: “Io voglio bene ai cinesi”. Ela folla si è messa a piangere». Lacrime che troppo pochi versarono, in Italia, quando se ne andò a soli 59 anni lasciando un vuoto enorme tra le persone che amavano il suo spiritaccio  anarchico e ribelle, libero fino alla strafottenza. Ma qui, al di là dei torti e delle ragioni, lo ricordiamo per il suo rapporto con quella «gabbia» meravigliosa che furono per lui le isole Eolie: «Dalla mia finestra vedo, azzurre in lontananza, l’alta rupe di Scilla e la gobba di Cariddi. Il sole nasce dietro Scilla. Ecco uno spunto di cui terrò nota: questo mio sole ironico che ogni mattina mi guarda stringendo l’occhio, di dietro la rupe di Scilla…»

Lipari, “Curzio Malaparte alla Eolie” il nuovo volume di Pino La Grecaultima modifica: 2012-07-01T07:18:40+02:00da leonedilipari
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