Di pomeriggio si svolgevano i preparativi, la totanara (l’ontrutu) avvolta di pesce in salamoia profumava, la “”lampatara” veniva riempita di petrolio. Al calar del sole si andava sulla spiaggia per varare la barca possibilmente senza bagnarsi i piedi! Il mare era calmo e “ u vuzzu” lentamente scivolava sull’acqua spinto dalla remata. Si sceglieva il posto per la prova e si incominciava a pescare aspettando con pazienza l’arrivo di qualche totano. La notte era buia senza luna e la “lampara” era la sola fonte di illuminazione, serviva da richiamo. Non sempre eravamo soli a volte si sentivano dei rumori, erano dei delfini che si avvicinavano alla barca emettendo suoni incomprensibili. La pesca andava sempre bene, il pescato era abbondante e per questo si riusciva anche a venderlo a cinquemila lire al chilo, erano per noi bei soldini. La volta più memorabile fu quanto riuscii a pescare più dei miei fratelli, li avevo battuti e per questo mi era stato chiesto il silenzio. Il mattino successivo vendettero i totani e non mi diedero la mia parte di soldi, arrabbiata mi sfogai con mio nonno Peppino. La punizione fu esemplare tutto Stromboli seppe, detto da mio nonno, che li avevo battuti a pesca!
foto di Nino Spartà: l’antica “lampatara” di nonno Peppino e totani appena pescati